E se un giorno …
Giorgio Arfaras, economista con esperienza diretta nell’industria e nella finanza, ci consegna questo libro dal titolo assertivo, La storia non è finita, tanto era assertivo il punto di vista di uno dei maggiori politologi del pianeta, Francis Fukuyama, che dopo la caduta dell’Unione sovietica mandò alle stampe un libro dal titolo hegeliano La fine della storia e l’ultimo uomo.
Arfaras inizia la sua analisi ponendosi una domanda, sulla quale muove tutto la sua riflessione sulla non fine della storia. La domanda è “Che cosa accadrebbe se la dinamica corrente — i Paesi autocratici che si affermano in campo politico e crescono in quello economico — si rivelasse duratura?”
Bella domanda! Succederebbe, risponde Arfaras, che: “i Paesi illiberali avrebbero un peso maggiore nell’economia mondiale, e quelli liberali — molto ricchi in termini assoluti, ma meno ricchi in rapporto ai Paesi emergenti — tornerebbero da dove erano partiti negli anni Ottanta, intorno alle rive del Nord Atlantico, in Giappone, e nell’emisfero australe”.
Un “reculer pour mieux sauter”?
In pratica torneremmo a una situazione simile a quella che esisteva alla vigilia della guerra fredda. La grande marcia della democrazia e del liberalismo potrebbe rinculare sulle posizioni iniziali. Ma la storia non è mica il gioco dell’oca, la storia è peristaltica. Allora questo movimento è un “Reculer pour mieux sauter” (titolo del capitolo 4 del libro).
L’analisi condotta da Arfaras è molto estesa e chiama in causa molte discipline, prime fra tutti la storia e la storia del pensiero che egli fonde in una sintesi originale e stimolante che richiama alla mente certe pagine di Nassim Nicholas Taleb.
Vogliamo offrirvi un breve saggio di questa capacità di sintesi e di collegamento tra storia, pensiero e fattualità nell’estratto che potete leggere di seguito dal titolo Nietzsche, Schumpeter e gli indici di Borsa. Ma che c’entrano? C’entrano, c’entrano. Lo scoprirete leggendo queste tre pagine tratte dal libro di Giorgio Arfaras. Buona lettura
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Nietzsche, Schumpeter e gli indici di Borsa
di Giorgio Arfaras
I pochi e i molti
Due dei temi dell’opera di Joseph A. Schumpeter sono nietzschiani: il ruolo dei pochi creativi, gli imprenditori, e gli organizzatori del risentimento dei molti contro le pretese dei pochi, i preti.
Il capitalismo è capace di aumentare la ricchezza, perché premia con la ricchezza e la gloria il successo, mentre minaccia con la miseria chi fallisce. Attrae così i brillanti e gli energici nelle attività di mercato. Quando i valori capitalisti dominano, la gran parte dei brillanti si sposta verso gli affari, e non più verso le attività militari, governative e culturali. Il capitalismo che premia e punisce non premia tutti, ma alcuni, quelli che hanno tratto vantaggio grazie a una combinazione di bravura e fortuna.
Per provare il punto dei premi e delle punizioni, osserviamo quanto accaduto negli Stati Uniti. Possiamo fare solo qui una verifica della teoria sia perché abbiamo la banca dati delle imprese quotate dal 1926 al 2016 — ben novant’anni di serie statistiche — sia perché non abbiamo un Paese bombardato, e/o occupato, e/o oggetto di rivoluzioni, vicende che alterano i risultati di un andamento solo economico.
La dinamica dell’indice di borsa
Le imprese quotate giudicate attraverso gli indici che le accorpano, mostrano che gli indici azionari hanno avuto dei risultati superiori a quelli dei titoli di Stato. Osservando gli indici, stiamo ragionando sulla base di una media, laddove l’impresa che è andata bene trascina quella che è andata meno bene. Il risultato è quello di credere che tutte le imprese siano andate più o meno bene intorno a un valore medio.
Nella tassonomia di Nassir Taleb in questo caso abbiamo il «Mediocristan» [ambienti sicuri e statici], ma non il realistico «Extremistan» [ambienti dinamici e imprevedibili].
Infatti, osservando diversamente gli andamenti, cambia la percezione ed emerge in tutta la sua drammaticità la «distruzione creatrice», ossia l’avvicendarsi di imprese nuove che si sviluppano e imprese vecchie che falliscono.
Dal 1926 al 2016 sono state quotate oltre 25 mila imprese. Non sempre le stesse imprese, perché nel corso del tempo le nuove imprese entravano in Borsa, mentre le imprese desuete o fallite uscivano. In Borsa si è allora avuta in ogni sottoperiodo una frazione delle 25 mila imprese passate per la quotazione. Più precisamente, la permanenza media è stata di sette anni, come frutto delle imprese che non sono mai uscite, delle imprese che sono durate a lungo, e delle altre che sono uscite in poco tempo.
Perdenti e vincenti
Solo cinque di queste hanno prodotto il 10 per cento della variazione della capitalizzazione: Exxon, Apple, Microsoft, General Electric, International Business Machines. Solo novanta hanno prodotto il 50 per cento della variazione del valore. Solo mille — mille su 25 mila, è il 4 per cento… — hanno generato quasi tutta la variazione del valore generato nei decenni dalle imprese quotate.
Nella vita reale vi sono — come tutti abbiamo avuto modo di osservare — imprese che sono fallite o che sono state ridimensionate, altre che sono cresciute.
Lo stesso vale per le famiglie proprietarie: alcune ricordano i bei tempi, altre sono ancora ricche o più ricche. Gli indici di Borsa riflettono quest’andamento della vita reale? No, perché includono le azioni che esistono in ogni sottoperiodo e non anche quelle che non ci sono più.
Negli indici, perciò, ci sono solo i vincitori pro tempore. Mentre nella vita reale si ha a che fare con un mondo di «passione», con le imprese e le famiglie ascese o decadute, nella vita finanziaria — per come si manifesta negli indici — si ha a che fare con un mondo «anemico», dove quasi tutti si muovono all’insù o all’ingiù senza troppe differenze.
L’approccio anemico
La gran parte dei portafogli azionari costruiti dall’industria finanziaria è raccontata seguendo l’approccio anemico. Il grosso dei risultati dei sopravvissuti pro tempore si distribuisce intorno alla media senza troppe differenze.
Come una popolazione di cui si calcola l’altezza: quasi tutti hanno un’altezza vicina a quella media, e i giganti e i nani sono pochi. Segue che, se ci si discosta poco dall’indice di Borsa, alla fine ottengono dei risultati accettabili, perché pochissimi vanno molto meglio e pochissimi molto peggio.
Se si scommettesse sugli estremi, contando di trovare un gigante, ci si potrebbe trovare fra le mani un nano. Quindi gli investitori saggi comprano gli indici con dentro i sopravvissuti, che si distribuiscono normalmente, ed evitano gli estremi.
Il capitalismo e il suo rovescio
Come il tedesco Karl Marx, Joseph A. Schumpeter ha sostenuto che il capitalismo crea la propria opposizione. Secondo l’austriaco questa opposizione non sorge per l’impoverimento materiale, ma per il risentimento creato dal dinamismo imprenditoriale.
Non sono stati gli intellettuali a creare il malcontento nei confronti del capitalismo. Questo è latente, e gli intellettuali incanalano le delusioni e i risentimenti diffusi generati dalla «distruzione creatrice». Sono gli intellettuali a dare forma al malessere generato dal capitalismo, spiegando che la soluzione sta nel suo rovesciamento.
Il tedesco Friedrich Nietzsche aveva fatto risalire il cristianesimo alla «volontà di potenza» dei preti che acquisivano influenza incanalando il risentimento degli schiavi. Joseph A. Schumpeter vede il socialismo come l’espressione degli intellettuali che incanalano il malcontento della società capitalista in una pseudo-religione che permette a chi non ha successo di razionalizzare il proprio destino.
Da: Giorgio Arfaras, La storia non è finita. Dalle origini del capitalismo alle varianti occidentale e orientale, Guerini (con goWare per la versione digitale), 2021, pp. 78–81