Il Primo Maggio di quest’anno è diverso dal passato e lo è anche dall’anno scorso quando già infuriava l’incubo della pandemia. Finchè circola il Covid e i morti rattristano tutte le nostre giornate è impensabile festeggiare il Primo Maggio come una volta ma, rispetto all’anno scorso, ci sono due grosse novità. Finalmente abbiamo i vaccini e la possibilità di vaccinare la gran parte degli italiani si avvicina. E poi abbiamo il Recovery Plan e il piano Draghi fatto di progetti e di investimenti ma soprattutto di una visione del futuro e di un forte impegno di riforme. Come si colloca allora, in questo contesto, il lavoro di chi ce l’ha e di chi purtroppo non lo ha ancora trovato? FIRSTonline lo ha chiesto a Pietro Ichino, giuslavorista tra i più celebri e a lungo parlamentare, prima del Pd e poi di Scelta civica. Convinto riformista, Ichino è un intellettuale indipendente che non ha paura di andare controcorrente anche a costo di assumere posizioni scomode. Come gli è capitato anche alla vigilia dell’ultimo 25 aprile, quando ha sostenuto sul suo sito che, oltre a celebrare i grandi meriti della Resistenza e della lotta di Liberazione, occorre anche ricordare e non ripetere gli errori delle forze democratiche e di sinistra che, con il massimalismo di quei tempi, finirono per favorire l’arrivo del fascismo. Apriti cielo. Contro di lui si è scatenato uno tsunami di contumelie e commenti violentissimi che non meritano solo la più ferma condanna ma che dovrebbero far riflettere sulla barbarie che ci circonda e sulla solitudine dei riformisti anticonformisti. Ma ecco l’intervista di Ichino in occasione del Primo Maggio.
Professor Ichino, il Primo Maggio dell’anno scorso lei ha pubblicato sul Foglio un articolo intitolato Se il Primo Maggio fosse dedicato a chi il lavoro non ce l’ha nel quale proponeva di dedicare la Festa del Lavoro a un “rovesciamento della visione tradizionale del mercato del lavoro e del ruolo del sindacato, necessaria per aiutarci trovare la via d’uscita dalla crisi di sistema che stiamo attraversando”. Può spiegarci quella sua idea e dirci se nell’anno che è trascorso ha fatto qualche passo avanti?
“È ancora pochissimo diffusa l’idea che il mercato del lavoro non è soltanto il luogo dove gli imprenditori si scelgono i collaboratori, ma anche il luogo dove questi ultimi possono scegliersi l’imprenditore. Il problema è che questa possibilità di scelta è data effettivamente in modo pieno soltanto a una metà delle persone che vivono del proprio lavoro. Il Primo Maggio è il giorno in cui si deve pensare a come dare questa possibilità anche all’altra metà. Certo, rispetto all’anno scorso su questo terreno non si è fatto alcun passo avanti”.
Ma non è troppo debole la domanda di lavoro nel nostro paese, soprattutto in questo periodo di crisi economica gravissima, perché tutti abbiano davvero questa possibilità?
“La domanda di lavoro da noi è debole, d’accordo; ma l’ostacolo più grave alla piena occupazione non è tanto quello, quanto la mancanza di servizi per l’incontro fra domanda e lavoro. Nel libro L’intelligenza del lavoro, uscito in occasione del cinquantenario dello Statuto dei Lavoratori, documento l’esistenza in Italia di enormi giacimenti occupazionali che restano inutilizzati perché alle persone che potrebbero esservi interessate non si danno i necessari servizi di orientamento professionale, informazione, formazione mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti e controllata nella sua efficacia, assistenza alla mobilità professionale e geografica”.
Enormi quanto?
“Dall’indagine svolta permanentemente da Unioncamere e Anpal risulta che anche oggi, nell’occhio del ciclone della crisi pandemica, in un caso su tre le imprese incontrano gravi difficoltà a trovare le persone che cercano: sono quelle che gli economisti e i sociologi del lavoro chiamano le hard-to-fill vacancies. In Italia sono oltre un milione i posti di lavoro che restano permanentemente scoperti per mancanza di un’offerta di manodopera corrispondente. Non si trovano i tecnici informatici, gli infermieri, gli operai 4.0 per la meccatronica, gli ingegneri, ma neanche i panificatori, i macellai, i sarti, gli idraulici, gli elettricisti, i falegnami. E l’Italia è il paese europeo con il tasso peggiore di mismatch, cioè di non corrispondenza tra qualità del lavoro offerta e qualità richiesta dalle imprese. Anche quest’anno la Festa del Lavoro dovrebbe essere l’occasione per denunciare e sollecitare la correzione di queste gravissime disfunzioni del mercato del lavoro”.
Ora ai servizi per il mercato del lavoro è dedicato un capitolo del PNRR, il Piano presentato nei giorni scorsi da Mario Draghi al Parlamento. Come giudica il suo contenuto?
“Il documento prevede il potenziamento dei servizi nel mercato del lavoro e delle strutture preposte a erogarli, quindi dei Centri per l’Impiego: su questo non si può non essere d’accordo. Mi sarebbe piaciuta una maggiore precisione sui contenuti concreti di questo potenziamento. Si sarebbe potuto, per esempio, fare riferimento al progetto che è già in fase avanzata di realizzazione a Milano, di digitalizzazione integrale della parte burocratica dell’attività dei Centri per l’Impiego e riconversione degli addetti in funzione dei servizi di orientamento, coaching, profilazione, job counseling, job self-service, che verranno offerti nel centro della Città, e poi a seguire in ciascun altro centro cittadino della provincia, nel nuovo Hub-Lavoro: un open space direttamente accessibile da strada, aperto dalle nove di mattina alle nove di sera. E tutti i servizi dello Hub-Lavoro saranno parallelamente offerti anche online, sul web. La speranza è che questa esperienza milanese diventi un punto di riferimento per tutto il Paese”.
Nello stesso PNRR, invece, è sparito ogni accenno al minimum wage, lo standard retributivo minimo che l’UE ci chiede di istituire: se l’aspettava?
“Sì, questo mi ha colpito. È il segno che il Presidente del Consiglio non ha voluto disattendere l’indicazione contraria che su questo punto viene congiuntamente dalle associazioni sindacali e imprenditoriali. Le quali temono che da un minimum wage di fonte legislativa o amministrativa possa derivare un indebolimento del sistema della contrattazione collettiva nazionale. Qui però potrebbe innestarsi il progetto del “Protocollo per la Produttività”, cui Draghi ha accennato nei giorni scorsi: un accordo tripartito nel quale potrebbe essere finalmente inserita la soluzione dell’annoso problema dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi di settore. Col risultato di attuare un meccanismo di determinazione di standard retributivi minimi capaci di coprire tutto il tessuto produttivo, soddisfacendo così quanto ci chiede l’UE, senza indebolire ma anzi rafforzando il sistema delle relazioni industriali e la sua autonomia”.
In che cosa potrebbe consistere la soluzione?
“Ne ha parlato nei giorni scorsi Lucia Valente in un articolo pubblicato su lavoce.info, che sta raccogliendo molti consensi. Si tratterebbe di togliere il “tappo” che ha impedito fin qui qualsiasi sistemazione legislativa della questione: quell’ultimo comma dell’articolo 39 della Costituzione che è stato scritto male dal legislatore costituente, perché implicherebbe la predeterminazione legislativa delle categorie sindacali. Basterebbe sostituirlo con una riga in cui si dice che “La legge stabilisce i requisiti perché ai contratti collettivi sia attribuita efficacia generale, nell’ambito della categoria da essi definita”. A quel punto, la legge ordinaria potrebbe attribuire l’efficacia erga omnes ai contratti collettivi secondo i criteri contenuti negli accordi interconfederali del 2011-14 per l’individuazione delle associazioni sindacali e imprenditoriali maggiormente rappresentative; aggiungendo soltanto che “nel caso di conflitto tra un contratto collettivo e un altro stipulato per una categoria più ristretta, la verifica della maggiore rappresentatività deve essere effettuata in riferimento a questa”.