In ambito lavorativo spesso una collaborazione può tramutarsi in concorrenza. Non è raro ritrovarsi in situazioni spiacevoli in cui le nostre idee o conoscenze vengono sottratte in modo sleale a danno della nostra attività. Ed è qui che la legge italiana entra in aiuto con il patto di non concorrenza. Si tratta di una clausola contrattuale che limita la facoltà di un’impresa o di un dipendente di svolgere attività professionali in concorrenza con l’azienda al termine del rapporto di lavoro, in cambio di un determinato compenso. Un obbligo di fedeltà disciplinato dal Codice Civile che ha carattere di reciprocità per tutto il periodo di collaborazione e oltre.
Se le parti coinvolte sono entrambe delle aziende, queste si impegnano reciprocamente a non esercitare attività concorrenziale diretta o indiretta con terzi e di non effettuare proposte di lavoro a dipendenti di competitor che operano nello stesso settore.
Norme vigenti
La sua disciplina si trova nel Codice Civile all’articolo 2125, 2596 e 1751-bis, rispettivamente per lavoratori dipendenti, autonomi e agenti commerciali. Si differenzia dal divieto di concorrenza, in quanto quest’ultimo non ha bisogno di alcuna pattuizione per essere valido.
Di fatto la clausola può essere inserita solo se di comune accordo tra le parti, all’inizio del rapporto di lavoro, durante o alla cessazione del contratto. Sebbene la libertà delle parti, queste devono rispettare alcune regole imposte dall’articolo 2596 del CC: forma scritta a pena di nullità, durata massima di 5 anni per i dirigenti e 3 negli altri casi, limiti del divieto di concorrenza in base al tipo di attività svolta e all’area di operatività. Inoltre, se viene pattuita una durata maggiore, questa si riduce nella misura indicata. Altrimenti il giudice del lavoro può dichiararne l’inefficacia nel caso le condizioni disciplinate dal codice non vengano rispettate.
Per quanto riguarda il corrispettivo, il Codice Civile non specifica il quantitativo ma il lavoratore può concordare un pagamento mensile (soggetto a contributi pensionistici) oppure al termine del contratto (soggetto al regime fiscale del TFR). Secondo il Codice però la retribuzione deve essere proporzionale alla durata, all’estensione territoriale e all’oggetto di non concorrenza.
Limiti di validità
Per non compromettere in modo eccessivo l’attività lavorativa del dipendente alla cessazione del rapporto, ci sono alcuni limiti di validità del patto di non concorrenza. In questo caso il patto può essere dichiarato nullo.
Oltre ai casi sopraindicati (forma, oggetto, durata, territorio), il patto di non concorrenza è considerato nullo qualora comprometta la potenzialità reddituale delle aziende o imponga limiti da restringere la capacità professionale. Nel caso venga dichiarata la nullità, il datore di lavoro può richiedere all’ex dipendente la restituzione delle somme precedentemente pagate. Allo stesso modo, se il lavoratore dimostra di aver rifiutato proposte lavorative a causa del patto di non concorrenza dichiarato poi nullo, allora potrebbe essere valutata la non restituzione di tali somme.
Cosa succede se una delle parti viola il patto di non concorrenza?
Nel caso del lavoratore si parla di concorrenza sleale, mentre per il datore di concorrenza parassitaria. In questi casi, datore e dipendente possono richiedere l’applicazione della penale prevista nel contratto di assunzione e il risarcimento dei danni. Inoltre, nel caso di concorrenza sleale, il datore potrà iniziare una procedura d’urgenza per ottenere un provvedimento dal Giudice che imponga immediatamente la cessazione dell’attività concorrenziale.
Si tratta di una materia complessa. Per questo molti scelgono di appoggiarsi a un’agenzia di investigazioni private specializzata nel settore lavorativo. Gli investigatori raccoglieranno le prove necessarie per confermare l’eventuale violazione del patto da una delle parti che potranno essere utilizzate nel caso di un processo giuridico.