Il Governo Draghi è in carica dal 13 febbraio ed è al lavoro da poche settimane. Poche parole, molti fatti. D’altronde, moltissimo ha da fare per realizzare il suo programma, che ha come obiettivo economico il rilancio della crescita. Ma anche migliorare la reputazione del Paese sui mercati e presso le istituzioni internazionali, decisiva per attrarre investimenti. Serve, cioè, vincere la diffidenza estera verso l’Italia. E riportare la sua immagine ai fasti di un tempo; anzi, più in alto.
Infatti, c’era un tempo in cui l’Italia era rinomata all’estero per il buon mangiare e il dolce vivere. Una fama immortalata in Vacanze romane, con Audrey Hepburn e Gregory Peck. Spaghetti e mandolino. Poi venne l’epoca buia del terrorismo, rosso e nero. Spaghetti e P38. Sono solo stereotipi, eppure contano.
Negli ultimi anni si è riaffermata la nomea della qualità della vita, congiunta alla bellezza paesaggistica e monumentale: spaghetti e musei. La costante presenza del primo piatto nazionale ha l’interfaccia nell’idea fissa dell’immaginario collettivo internazionale che il Bel Paese sia specializzato nel food and fashion, e poco più. Un’idea che si accompagna a un altro chiodo inamovibile: le mani bucate nella spesa pubblica, con tendenza a gravare sulle spalle altrui. In altre parole: altri popoli formiche e italiani cicale.
La fama di inaffidabilità nelle finanze pubbliche è antica, tanto che negli anni 70 del secolo scorso la Germania volle l’oro delle riserve della Banca d’Italia a garanzia del prestito concesso per aiutare a superare la crisi valutaria allora in corso. E l’alto debito pubblico lordo, in rapporto al PIL di gran lunga il più elevato tra i paesi avanzati, dopo quello del Giappone, sta a lì a validare questa negativa opinione.
La realtà è però ben diversa da questi radicati pregiudizi. Sia sul piano delle capacità produttive sia anche su quello delle finanza pubblica. Ed è ora che tale realtà inizi a fare premio sui preconcetti. La riassumiamo in cinque punti.
1 – L’Italia è la seconda potenza manifatturiera europea, dietro alla Germania. A livello globale è settima, davanti a Francia e Regno Unito. Se consideriamo che l’Italia è solo 23esima per popolazione, si comprende meglio l’alta vocazione industriale degli italiani.
2 – Questi primati poggiano su un ampio spettro di produzioni, con punte di diamante non solo nei tradizionali beni di consumo, ma anche nei macchinari, chimica, farmaceutica, metalli, mezzi di trasporto (soprattutto non autovetture) che costituiscono pietre angolari del valore aggiunto manifatturiero e dell’export. Il posizionamento elevato delle imprese italiane nei ranking globali della competitività è eloquente degli sforzi di innovazione compiuti negli anni passati. Se consideriamo le statistiche dell’International Trade Centre, che aggrega un ampio numero di indicatori elaborando un indice sintetico di competitività dell’industria utilizzando una disaggregazione a 14 settori, possiamo osservare come in ben 9 di questi il Paese si collochi ai vertici, entro le prime 5 posizioni. Anche la Germania si colloca nelle posizioni apicali in 9 dei 14 settori, mentre per Francia e Spagna questo si verifica soltanto in due casi.
Bisogna, inoltre, sottolineare che l’intreccio delle catene internazionali del valore fa sì che una parte significativa della qualità delle produzioni tedesche (ma anche svizzere) è frutto della qualità dei beni che l’industria italiana fornisce all’industria teutonica (ed elvetica).
Infine, non c’è settore in cui l’Italia non sia presente, in minore o maggiore misura, cosicché vanta filiere pressoché integre. Ciò spiega perché molti marchi stranieri vengono a far produrre qui ciò che in casa non sono più in grado di fabbricare, se non con qualità più scadente e/o costi più elevati.
3 – Il debito pubblico, nel livello e nella dinamica, non rispecchia i sacrifici sostenuti dagli italiani negli ultimi trent’anni. Questi sacrifici sono rappresentati dai saldi primari, ossia dalla differenza tra entrate e spese pubbliche al netto degli interessi. Un avanzo primario positivo vuol dire che lo stato (nel suo perimetro più ampio, che include le amministrazioni locali e previdenziali) restituisce ai cittadini, in servizi e trasferimenti monetari (come le pensioni), un valore inferiore a quanto incassa con imposte e contributi.
Se si sommano i saldi primari nel corso del tempo, si vede che gli italiani hanno “tirato la cinghia” molto più di francesi, austriaci, olandesi e tedeschi, e solo un po’ meno dei belgi. Il debito pubblico è l’eredità degli anni 70 e della prima metà degli anni 80, quando i saldi primari erano negativi. Successivamente ha continuato a salire per effetto della bassa crescita e del peso degli interessi.
4 – Le pensioni italiane non sono più generose di quelle degli altri maggiori paesi europei. Le varie riforme che si sono succedute hanno alzato, e continueranno ad alzare, l’età effettiva al pensionamento e inserito meccanismi automatici di aggiustamento (per esempio, adeguamento dell’età pensionabile alla durata media della vita) che rendono il debito previdenziale italiano minore di quello di molti altri paesi europei.
5 – Quelli pubblici sono solo uno dei tre conti rilevanti per determinare se e quanto un paese sia formica o cicala. Gli altri sono quelli delle famiglie e delle imprese. La somma algebrica di questi conti dà il conto con l’estero. Ossia l’insieme dei pagamenti e degli incassi non finanziari con gli altri paesi. In un termine: la bilancia delle partite correnti.
L’Italia vanta un avanzo consistente della bilancia corrente ormai dal 2013. Questo vuol dire che in tutti questi anni ha consumato meno di quello che ha prodotto, cioè ha risparmiato, e questo risparmio è andato a finanziare gli altri paesi. Tanto è vero che l’Italia ha ormai azzerato il suo debito estero, che nel 2008 era pari al 23% del PIL.
Dunque, gli italiani sono un popolo industrioso, non scialacquano, ma risparmiano e sostengono così chi è davvero cicala. Ed è ora che questa verità sia affermata con voce chiara e forte in tutti i consessi, nazionali e internazionali. E anche presso chi, erigendosi a profeta in patria, punta a far fortuna parlando solo di peccati capitali dell’Italia.
Va tutto bene, allora? No, purtroppo. Sgombrato il campo dai pregiudizi, e riaffermate con orgoglio le virtù, ci possiamo concentrare sul problema di problemi: la lenta crescita. Che è la vera malattia del Paese. Lo faremo nella seconda puntata. Con qualche ulteriore dato controcorrente, se non sorprendente.