Il tango non era “un pensiero triste che si balla”, secondo la nota definizione dello scrittore argentino Ernesto Sàbato, ma piuttosto il “rettile da lupanare” descritto decenni prima dal poeta e politico Leopoldo Lugones. Non era il ballo elegante e malinconico che conosciamo oggi ma un rito rozzo e maschilista, ballato nelle bische (come avvenne per il jazz negli Stati Uniti) dai meticci delle periferie di Buenos Aires alla fine dell’Ottocento, e ispirato alla milonga, quella danza sempre inventata dai “guappi” per prendere in giro le movenze dei neri, all’epoca – prima dell’immigrazione europea – più numerosi di adesso in Argentina.
A svelare la vera storia del tango, che infatti secondo molti autori è una parola di origine africana, così come milonga, è nientemeno che Jorge Luis Borges, in un libro postumo, pubblicato di recente in italiano con titolo “Il tango” (Adelphi) e frutto di un enorme lavoro di trascrizione di quattro audiocassette in cui erano registrate altrettante conferenze tenute dallo scrittore nel 1965: “Il tango – riportano gli audio, autenticati dalla vedova di Borges Maria Kodama – in origine era un ballo audace e felice, inventato da uomini coraggiosi nella loro allegria. L’immaginario del tango ci riporta in un mondo magico dove tutti siamo morti in qualche rissa nei sobborghi”.
“Le due parole che nel mondo fanno pensare all’Argentina sono gaucho e tango – sostiene lo scrittore nel suo ciclo di incontri – ed in qualche modo sono collegate fra loro”. A ballare il tango non erano infatti i gauchos ma i compadritos, cioè i “guappi”, i delinquenti spesso organizzati in bande, che vivevano ai margini della città e che si ritrovavano, per chiacchierare, bere qualcosa, giocare a carte, ballare ma anche sfidarsi in sanguinosi duelli, nelle case di malaffare. Questi luoghi erano bordelli dove accorrevano donne di facili costumi, altra figura centrale del tango, che venivano sfacciatamente avvicinate dai malviventi, e magari uccise per gelosia, o davano origine a duelli letali tra rivali per affermare la propria virilità.
“Y los duelos a cuchillos le enseñaron a bailar”: “e i duelli al coltello gli insegnarono a ballare”, scrive Miguel Camino in una poesia dedicata al tango. Niente a che vedere col tango “lamentoso” da Carlos Gardel in poi, quando i testi erano quasi tutti ispirati alla disperazione dell’uomo abbandonato dalla donna: “Un uomo che pensa cinque minuti a una donna non è un uomo, è una checca”, dice Borges citando un racconto di Vicente Rossi. Questi compadritos, quasi sempre meticci (criollos), un po’ gauchos però ci si sentivano: nel 1880, anno in cui lo scrittore argentino colloca la nascita del tango, le zone periferiche della città erano quasi un tutt’uno con la campagna circostante, e anche i compadritos – come quei cowboy della pampa – lavoravano con gli animali. Erano di solito macellai, squartatori, carrettieri.
Persone di potere, per quanto sordido e criminale, e proprio questo sfata un altro tabù: “Al contrario della specie di romanzo sentimentale creato dal cinema – sostiene Borges nelle sue conferenze trascritte -, non è dal popolo che nasce il tango. Come abbiamo visto, il tango ha una radice indecente, ballato clandestinamente da una cerchia di “guappi” di quartiere, giovani sfaccendati di famiglie benestanti, spesso riuniti in bande rissose e turbolente, e donne di vita”. Rissoso, spudorato, malizioso: inizialmente questo ballo era persino rifiutato dalle persone che chiameremmo per bene, soprattutto dalle donne, che disdegnavano la sua impronta fortemente machista, e proprio per questo motivo il tango dei primi decenni, prima del boom dal 1910 in avanti, quando arrivò in Europa, era spesso e volentieri ballato da una coppia di uomini
Anche quando erano un uomo e una donna a ballarlo, l’andatura e soprattutto le cortes (le pause, contrassegnate da figure particolarmente osé, diverse da quelle che usiamo adesso) erano decise ed effettuate solo dagli uomini: la donna si adeguava, cosa che fa anche nella versione moderna, ma in quella originale molto di più. Il tango degli albori era differente anche dal punto di vista musicale: si accompagnava con pianoforte, flauto e violino; solo dopo arrivò l’ormai insostituibile bandoneon. Come ha fatto dunque un ballo così pacchiano a diventare la danza lenta e voluttuosa che conosciamo oggi? Proprio grazie al citato arrivo in Europa, dal 1910 in poi. E per la precisione in Francia, a Parigi, dove i figli di papà sfaccendati (niños bien patoteros) lo esportarono, potendosi permettere già all’epoca viaggi lunghi.
“Noi argentini – diceva Borges nel 1965 – anche se balbettavamo il francese, eravamo tutti (a nostro parere, non certo secondi i francesi) francesi onorari. Conoscevamo il francese o facevamo finta di conoscerlo. Per questo preferiamo definirci latinoamericani e non ispanoamericani”. A Parigi e poi nel resto d’Europa il tango viene dunque accettato e sdoganato, ma in una versione più soft: le sue linee eccessivamente sinuose (soprattutto per l’epoca), così come erano state rifiutate dalla Buenos Aires “bene”, erano incompatibili ad esempio con la rigidità degli ufficiali tedeschi o con i cliché delle dame inglesi, che invece in una consultazione votarono a maggioranza che quella versione presentabile era assolutamente decente.
Inizialmente condannato anche dal Vaticano e giudicato “immorale” da un tribunale di Cleveland, nell’Ohio, il tango perse così la sua natura e diventò effettivamente quel “pensiero triste che si balla”, adorato dalle classi più alte della società e che raggiunse l’apice del successo nella versione “piagnucolona” di Carlos Gardel, peraltro nato proprio in Francia, a Tolosa. E l’Italia? Pur avendo avuto grande influenza sulla cultura argentina, in particolare sulla lingua come ricorda spesso Borges nelle sue lezioni, l’enorme emigrazione italiana in Argentina non ha avuto particolari motivi di contatto con la storia del tango. Qualcuno, a dire il vero, provò ad attribuire lo “sdolcinamento” del ballo al momento in cui si allontanò progressivamente dalle zone malfamate per giungere nel quartiere genovese della Boca.
Insomma, una chiave di lettura più nazionalista considerò il tango “lamentoso” come una conseguenza dell’immigrazione italiana. Una tesi che Borges ritiene inaccettabile e rispedisce al mittente: “Non c’è motivo di ritenere che tutti gli italiani siano tristi o lagnosi, credo che all’inizio il tango fosse più eroico perché era meno immaginativo, e si sa che la paura nasce dall’immaginarsi le disgrazie prima che accadano”. L’autore cita un verso del Giulio Cesare di Shakespeare: “I codardi muoiono molte volte prima della loro morte; i coraggiosi assaggiano la morte una volta sola”. Il coraggioso è superficiale, affronta la morte e non ha tempo per aver paura. Il tango, in origine, era simbolo di felicità e coraggio.