Dal crollo delle ideologie, trent’anni fa, trovare argomenti che caratterizzano una forza politica come “di sinistra” non è facile. Enrico Letta nel suo discorso di accettazione della candidatura a segretario del PD, ha citato molti punti tradizionali della sinistra dalle diseguaglianze, alla parità di genere, ai diritti alla salute e all’istruzione. Titoli di capitoli che per trasformarsi in azione di una forza di sinistra devono essere declinati in azioni, cioè si deve dire “come” si deve fare per raggiungere quegli obiettivi. Ma su questo Letta non ha potuto, o voluto, scendere in dettagli e così ha affidato la caratterizzazione del PD come forza di sinistra allo Ius Soli, e al voto ai sedicenni.
Si tratta però di slogan che si riferiscono a vecchi ricordi della sinistra, magari anche giusti, ma che da soli non sembrano ne’ di grande attualità ne’ così popolari da assicurare una riconquista degli elettori che si sono allontanati dal partito. La questione degli immigrati è assai più complessa e comunque la sinistra deve prendere atto che è proprio nelle periferie che si annida la maggiore sofferenza per una gestione delle persone già arrivate che di fatto vengono abbandonate a loro stesse dalle istituzioni e quindi gravano sulle spalle degli antichi residenti di quelle zone.
È giusto pensare ai giovani ma è dubbio che il voto ai sedicenni possa risolvere il problema che consiste nell’accumulo di un enorme debito pubblico (per pensioni e sussidi vari), un debito che grava sulle spalle dei ragazzi bloccando l’economia e quindi le opportunità di lavoro e di crescita offerte alle nuove generazioni. Proprio il tema della crescita è stato il grande assente del discorso di Letta per altri versi apprezzabile. Stupisce in particolare quanto da lui affermato sul mercato del lavoro, tema sul quale ha voluto dare qualche dettaglio. A suo parere occorrerebbe far partecipare i lavoratori ai risultati dell’impresa cosa che può avvenire con varie modalità, dall’ingresso nell’azionariato fino ai premi legati agli utili aziendali e quindi alla produttività del lavoro.
Poco prima la presidente dell’assemblea nazionale Valentina Cuppi aveva affermato che il PD è a favore del salario minimo. Mettendo insieme queste affermazioni si delinea una svolta epocale nella politica del lavoro da parte del PD, una svolta che lo porterebbe in rotta di collisione con i sindacati ed in particolare con la CGIL di Maurizio Landini che è contraria al salario minimo per legge e difende il contratto nazionale che invece uscirebbe depotenziato sia dal salario minimo che da una maggiore partecipazione dei lavoratori ai profitti delle imprese. Questa partecipazione infatti, per sua natura, potrebbe essere contrattata solo in azienda lasciando al contratto nazionale al più la definizione di alcune norme quadro.
Infatti legare una quota del proprio salario ai risultati di una impresa implica una disponibilità da parte dei lavoratori ad accettare i cambiamenti organizzativi e di ruolo che le imprese devono fare per vincere la concorrenza e quindi fare profitti. E questo scambio può avvenire solo a livello aziendale. Veramente Letta vuole portare il suo PD su un terreno realmente riformista e sfidare il conservatorismo dei sindacati? Con la segreteria Zingaretti il partito si è caratterizzato per un’idea di sinistra assai simile a quella dei populisti, e su un rapporto di massima vicinanza con il sindacati sui temi cruciali del lavoro, dell’industria pubblica e della spesa statale.
Se Letta riuscirà a convincere i suoi seguaci più tradizionalisti che il vecchio armamentario ideologico del secolo scorso non è più utilizzabile, allora sì che potrà nascere un partito di sinistra veramente nuovo, e capace di affrontare i problemi dell’oggi e del futuro con proposte adatte ad ottenere positivi risultati e non solo ad illudere la gente come è avvenuto in passato.