“È assai probabile che vedremo il prezzo del petrolio oltre gli 80 dollari nella seconda parte dell’anno. Anzi, le sorprese, che ci saranno, saranno tutte al rialzo. Le ragioni? Quest’anno sono i produttori ad avere il controllo del mercato, ma l’Opec + è molto cauto nel muovere al rialzo la produzione perché sottovaluta la forza della ripresa che ci sarà dopo aver domato il Covid 19”. Questo dice al Financial Times Paul Andurant, il gestore hedge più ascoltato nel mondo del petrolio. Nessuno, infatti, può vantare una tabella di marcia paragonabile a quella di questo finanziere poco più che quarantenne con una laurea in matematica, un fisico da atleta (ha fatto parte della nazionale francese di nuoto e pratica kickboxing) che riceve i clienti, i più bei nomi dell’aristocrazia del petrolio del Golfo, nel suo ufficio londinese davanti ad Harrod’s.
Nel 2020 i fondi gestiti da Andurand hanno registrato un rendimento del 152 per cento. Da gennaio, sia l’Andurand Capital market (più tranquillo) che il Discretionary Enhanced Fund (il più aggressivo), guadagnano il 15 per cento circa. Merito dell’intuizione dello scorso autunno quando Andurand, fino a quel momento grande venditore allo scoperto, decise che il ribasso era arrivato al capolinea. Da allora il prezzo del Brent è salito dell’80%. Solo fortuna? No, molto di più. Nel febbraio del 2020, dopo aver speso due settimane per studiare il fenomeno, Andurand concesse un’intervista sempre al Financial Times per dire che il coronavirus sarebbe stato il fattore dominante dell’economia nell’anno a venire e che l’energia sarebbe stato uno dei settori più colpiti. Di qui la decisione di puntare tutto sul ribasso liquidando, con forte profitto, le posizioni accumulate in precedenza. E non finiscono qui le intuizioni di successo del gestore che, dal 2013 in poi, ha messo assieme un patrimonio attorno ai 700 milioni di dollari.
L’andamento del mercato, insomma, finora ha dato ragione al gestore dal fiuto magico. Ma adesso? Per sette settimane di fila il greggio ha chiuso in rialzo fino a bucare lunedì la vetta dei 70 dollari al barile spinta peraltro all’insù dall’attacco dei ribelli yemeniti a Ras Tanura, la principale struttura di Aramco per l’export del petrolio. Da allora, però, è iniziato una sorta di braccio di ferro tra i “commercianti” e i produttori dopo che l’Opec + ha deciso di irrigidire ulteriormente il mercato rinviando un aumento della produzione già pianificato, scommettendo sul fatto che i produttori di petrolio di scisto statunitensi sono più concentrati sui dividendi che sull’aumento della produzione. In tal modo, però, si legge in una nota di Saxo, “si mantengono gli speculatori felici a spese del consumatore globale, e si aggiunge ulteriore benzina (è il caso di dirlo) al rischio di crescita di inflazione”. Insomma, il rally delle materie prime osservato negli ultimi mesi, un movimento al rialzo pressochè sincronizzato, viene sfidato dall’aumento dei rendimenti delle obbligazioni statunitensi che ha portato minore propensione al rischio e un dollaro più forte, con effetto immediato sui prezzi dopo 13 mesi di un rialzo che comincia ad inquietare le banche centrali che temono u balzo improvviso dell’inflazione.
Il braccio di ferro tra rialzisti e non promette di segnare il prossimo futuro dei mercati. Per difendere il rally dell’80% dall’inizio di novembre, il gruppo dei produttori ha deciso di rinnovare per un mese gli 0,5 milioni di barili/giorno che erano in discussione. Inoltre, l’Arabia Saudita ha esteso il suo taglio unilaterale di 1 milione di barili/giorno, rischiando così di stringere eccessivamente il mercato mentre la pandemia globale si affievolisce e la mobilità riprende. Diverse banche hanno risposto aumentando le loro previsioni di prezzo per il terzo trimestre verso l’area da $75 a $80/b e il rischio a breve termine per il petrolio è ora principalmente associato ai suddetti rischi di riduzione della leva finanziaria che si diffondono da altri mercati. Intanto, spiegano i tecnici, nel cosiddetto “mercato di carta” si moltiplicano i segnali di tensione legati agli acquisti speculativi che tendono a concentrarsi nei contratti di inizio mese, la parte più liquida della curva, mentre si infittiscono le voci sui carichi di greggio in giro per i vari porti in attesa di prezzi più allettanti.
Ma è facile che alla fine ancora una volta si riveli giusta la profezia di Andurant: i prezzi reggono bene grazie al prolungamento ai tagli alla produzione decisi dai principali produttori di petrolio, che continuano a limitare l’offerta, e all’ottimismo su una ripresa della domanda globale attesa nella seconda parte dell’anno. “Supponendo che i programmi di vaccinazione abbiano successo, ci aspettiamo che la domanda repressa di carburanti aumenti in modo importante quest’estate durante la “driving season” (la stagione delle vacanze) negli Stati Uniti e in Europa”, hanno scritto gli analisti di FGE in una nota. Gli analisti di RBC Capital ritengono che i fondamentali per la domanda di carburanti in estate saranno i migliori da quasi un decennio. Anche JP Morgan, da sempre grandi protagonista del mercato, scrive che “i prezzi attuali, per la maggior parte degli operatori onshore statunitensi, sono profittevoli”, ipotizzando che la produzione di petrolio greggio degli Stati Uniti raggiungerà in media 11,78 milioni di barili al giorno nel dicembre 2021, in aumento di 710.000 pezzi all’anno.