I tassi a lunga ci avevano abituato a una quasi noiosa stabilità, ma nell’ultimo mese c’è stato uno strappetto, con i rendimenti dei T-Bond che sono saliti oltre la soglia dell’1%. Per carità, sembra molto, ma la cosa è da mettere in prospettiva: un anno fa erano a quota 1,9%, e adesso si tratta più che altro di un inizio di normalizzazione, dopo la discesa, a metà anno, al livello record di 0,60%.
Ci sono anche fattori di domanda di risparmio, sia da parte del Tesoro Usa, che deve finanziare immani deficit (vedi le nuove misure di sostegno appena approvate, più i famosi 2000 dollari a testa, cui il nuovo Senato darà via libera), sia da parte di chi eroga i mutui edilizi: la domanda di case è forte, e gli indici di fiducia dei costruttori sono i più alti da trent’anni.
Passando sull’altra sponda dell’Atlantico, il ritardo della ripresa in Europa lascia i rendimenti dei Bund dove sono (magari un po’ meno negativi), mentre la stabilità dei tassi sui BTp fa scendere ancora lo spread, ormai sotto i 110 punti base. Chi guardasse alle ansiogene manovre del Palazzo romano, ancora sull’orlo di una crisi, potrebbe stupirsi dell’olimpica calma dei mercati nel tenere i rendimenti dei BTp a livelli di poco sopra il mezzo punto, e lo spread stabilmente sotto il 110.
Ma la risposta è sempre quella: nel mondo c’è un eccesso di risparmio, e ci sono i generosi programmi di acquisto di titoli pubblici da parte della Bce. I finanziamenti dei deficit pubblici sono in pratica garantiti. A gennaio scorso i rendimenti dei BTp erano sull’1,4%, e chi li avesse comperati allora si trova con un soddisfacente guadagno in conto capitale.
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Certo, c’è chi si domanderà se questi facili guadagni continueranno, o se una risalita dei tassi porterà a perdite, nei bilanci dei risparmiatori e in quelli delle banche. Certo, nelle Cancellerie, nei ministeri dell’Economia e nelle Banche centrali in giro per il mondo ci sono molti ‘falchi’ che non si trovano a loro agio in un mondo con debiti pubblici in continua ascesa.
Ma serpeggia nell’accademia e negli ovattati uffici degli organismi internazionali (tutta gente che non ha la responsabilità di finanziare i deficit e quindi hanno più tempo per pensare) un approccio differente alla politica economica. I tassi, si dice, rimarranno bassi, il debito è sostenibile, non bisogna correre il rischio di tornare all’austerità (come nel 1937 in America, o come nell’Eurozona dopo la Grande recessione o come il Giappone con gli intempestivi aumenti dell’Iva…), e non c’è niente di male se arrivano soldi dall’elicottero, o se, fuor di metafora, le Banche centrali indulgono a quella che, secondo la pratica e la grammatica, è la manovra più espansiva che si possa immaginare: maggiore spesa pubblica finanziata con creazione di moneta.
Per i tassi reali, questi, a inizio d’anno, si sono posizionati, con rara comunanza di intenti, intorno allo zero, sia per i T-Bond, che per i Bund e i BTp. Nel corso del 2020 avevamo più volte lamentato come, con tanti ‘segni meno’ delle variazioni del Pil sparsi in tutti i punti cardinali, i tassi reali avrebbero dovuto essere ben più bassi di quelli che erano. Lo stesso ragionamento, in questo anno di grazia 2021, porta ad approvare i tassi reali a zero: visto che, salvo orribili ma poco probabili sorprese, le dinamiche dei Pil nei vari punti cardinali cambiano di segno e si portano ben sopra lo zero, questi bassi tassi reali saranno di conforto alla ripresa.
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Tanto più che un altro conforto viene dal costo del capitale di rischio. La buona salute dei mercati azionari abbassa questo costo e rende le condizioni monetarie fra le più facili di sempre.
A questo punto si obietterà: sì, ma le quotazioni delle Borse sono fragili o solide? Chi avesse voluto scommettere sull’“insano” ottimismo di quei mercati lungo i dolorosi mesi (non sono finiti…) dei contagi, avrebbe perso soldi. I mercati sono irrazionali? Forse sì, ma, come osservò un giorno Keynes, “i mercati possono rimanere irrazionali più a lungo di quanto tu possa rimanere solvente”.
E in effetti fa un certo effetto vedere la macabra sincronia (grafico) fra l’andamento dei decessi da Covid-19 negli Usa e l’indice S&P500. Ma forse c’è del metodo in questa pazzia. I profitti hanno tenuto e in molti casi sono aumentati, specie in America, dove le imponenti misure di sostegno hanno beneficiato non solo le famiglie ma anche le imprese. E le Borse guardano ai conti delle società, e non agli ospedali o ai cimiteri.
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Il dollaro vede la sua attrattiva di ‘moneta rifugio’ scalfita sia da fattori economici (azzeramento del differenziale di tassi reali a lunga T-Bond/Bund) che da fattori geo-politici. La surreale vicenda delle elezioni americane, culminata con l’incredibile e sanguinoso assalto al Campidoglio (non quello romano: la Raggi è sana e salva!), ha fatto molto per inzaccherare il soft power degli Stati Uniti e, se la moneta è il “biglietto da visita” di una nazione, oggi questo biglietto non è più “senza macchia e senza paura”.
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Può darsi che il dollaro, che forse non ha finito di scendere, possa riguadagnare terreno nel corso dell’anno, se, come più che probabile, l’economia in America – fra misure espansive, ‘luna di miele’ del nuovo Presidente e progressi nella vaccinazione – avrà una ripresa vigorosa. Se questa inversione del cambio del biglietto verde potrebbe valere per l’euro, non può valere per la moneta cinese. Questa continuerà a riflettere la forza relativa della Cina.
Un interessante studio del Peterson Institute for International Economics afferma che l’integrazione finanziaria fra Cina e resto del mondo (e segnatamente gli Usa) continua: è imposta dai mercati e facilitata da passati accordi con l’America volti a lubrificare sia gli afflussi che i deflussi di capitali. Le punture di spillo dell’Amministrazione Trump (delisting delle società cinesi da Wall Street e sanzioni assortite) sono largamente simboliche e non cambiano la realtà di fondo. Dato che anche per la Cina vale il fatto che la domanda e l’offerta di valuta sono determinate molto di più dai movimenti di capitale piuttosto che dalle transazioni correnti, gli afflussi verso la Cina continueranno a tenere il cambio dello yuan a livelli forti.
Tanto più che il nuovo modello economico cinese (nuovo si fa per dire, visto che ha ormai un lustro) punta sullo sviluppo di servizi e consumi e su nuove tecnologie, dove la concorrenza di prezzo conta poco. E intende dipendere sempre meno dall’import di manufatti. Mentre un cambio forte rende più a buon mercato le materie prime di cui comunque il gigante cinese continuerà ad avere un bisogno crescente.