E’ finito così come era cominciato, improvvisamente, l’ultimo conflitto fra azeri e armeni per il controllo del Nagorno Karabakh, fisicamente un pezzo dell’Azerbaijan abitato da armeni. La pace, firmata nel cuore della notte, mentre nessun osservatore se l’aspettava, come si sa è stata proposta dalla Russia e accettata dalla Turchia, il vecchio e il nuovo gendarme del Caucaso. Abbiamo capito chi ha vinto e chi ha perso osservando quello che è successivamente accaduto alla notizia a Baku e a Erevan, rispettivamente capitale dell’Azerbaijan e dell’Armenia. Gli azeri hanno festeggiato per le strade e sotto la residenza del presidente Aliev; gli armeni hanno messo a soqquadro la città assaltando la casa del loro Capo dello Stato al grido di “traditore”.
Dunque gli armeni hanno perso e gli azeri hanno vinto, al di là di ogni ragionevole dubbio. Aliev è riuscito nell’opera di recupero del territorio non solo grazie all’aiuto non abbastanza nascosto della Turchia, che ha abbondato in armi e consigli; ma anche grazie alla scelta di Putin di chiudere la faccenda il più presto possibile e prima che l’ombra del Commendatore-Sultano, alias Erdogan, si facesse più grande e avvolgesse tutto il Caucaso. Il presidente russo prima ha tenuto un profilo bassissimo per tutti i 44 giorni di quest’ultimo conflitto, lasciando che la Turchia spalleggiasse più o meno velatamente l’Azerbaijan; poi è intervenuto a gamba tesa stoppando azeri e turchi e obbligando gli armeni alla pace “dolorosa”, come l’ha definita il loro leader Nikol Pashynian. Dimostrando che il Caucaso, in qualunque direzione si guardi, è sempre “roba” di Mosca. Un monito ai turchi che non faranno parte delle truppe di Peacekeeping (2 mila soldati russi verificheranno l’applicazione del trattato) perché la loro presenza nella regione, come ha detto il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov, “non è prevista”.
Era inevitabile. Nessun commentatore lo diceva né poteva dirlo ad alta voce, ma la sorte degli armeni della piccola regione separatista stavolta era parsa condannata fin dal primo momento. Sono caduti in una trappola? Forse sì. Perché come ricorda un osservatore acuto di politica estera, Mario Raffaelli, primo presidente del gruppo di Minsk, nato negli anni Novanta per porre fine al conflitto durato 26 anni, gli armeni “non hanno capito che il quadro geopolitico era cambiato. Potevano ottenere con un negoziato molto di più di quanto possano ottenere dopo la sconfitta militare”. Invece Erevan ha accettato la sfida di Baku, lanciandosi nella guerra forte dell’idea che il mondo era ancora spaccato in due e che loro erano sotto un ombrello sicuro, quello russo.
Ma Putin, fine lettore di classici e fautore dell’ordine Westfaliano, come avrebbe detto Kissinger, vale a dire consapevole che le alleanze non possono essere sempre le stesse perché prima di ogni altro interesse viene quello del proprio Stato, ha scelto un’altra strada. E il primario interesse della Russia in questo momento nel Caucaso è uno solo: fermare le ambizioni del Sultano Erdogan e della Turchia. Insomma, non si muore per Stepanakert, la capitale del Nagorno.
E se Mosca avesse sceso l’altra strada? Quella di spalleggiare in maniera più determinata l’Armenia? Ora che è finito tutto possiamo dire senza tema di smentita che senza i droni e i mercenari inviati dalla Turchia (ma soprattutto i droni) la situazione sul terreno sarebbe stata diversa. Senza togliere nulla all’Azerbaijan, diventato un grande e ricco in questi anni, se la Russia avesse scelto di aiutare con più determinazione l’altro ex Paese fratello, l’Armenia appunto, è probabile che le cose sarebbero andate diversamente. Ma non nel senso che il conflitto avrebbe avuto un altro esito, ma si sarebbe sicuramente protratto continuando ad arricchire quel lungo elenco di guerre infinite in cui non c’è mai un vincitore. Con morti da entrambe le parti (5mila stavolta), profughi, città distrutte e nuovi padroni all’orizzonte.
Ma soprattutto, se Mosca avesse accettato di essere parte più chiara nel conflitto, avrebbe concesso a Erdogan la carta che pretendeva: riconoscerlo e dividere con lui l’influenza nella Regione. Costringendo Erevan alla resa invece ha concesso agli azeri quello che volevano (riprendersi gran parte del territorio perso), ma ha allontanato il loro protettore Erdogan dal Caucaso. L’amarezza del finale di tutto ciò è che questo accadeva ai confini dell’Europa, come ricorda Raffaelli, “in un dialogo-competizione fra Russia e Turchia senza un minimo ruolo dell’Unione e degli Stati Uniti”. Ma non ci sorprende più di tanto, anche questo riproduce la fotografia dell’ordine Westfaliano: comandano quelli che ci sono, non quelli che potrebbero esserci.
Che succederà ora? Baku esulta giustamente dal suo punto di vista, Erevan recrimina altrettanto giustamente dal suo. Non possiamo sapere quanto sarà solida questa pace: i due popoli si detestano cordialmente da secoli, dovranno ricominciare a convivere sotto lo sguardo di Mosca. E ora, defilato ma presente, anche di quello di Ankara. Al russo dovrebbero esserci abituati; al turco bisognerà che comincino. Per gli azeri non sarà difficile, per gli armeni sarà (quasi) impossibile.