Alla fine, anche Trump si è preso il virus. E, a poche settimane dalle elezioni, le scelte degli americani elettori diventano una variabile importante per capire se la locomotiva americana spingerà il mondo fuori da questa crisi epocale. Per la verità, la locomotiva non è più quella di una volta (dal 2014 l’economia più grossa, in parità di potere d’acquisto, è la Cina) e il complesso degli emergenti copre più della metà del Pil mondiale. Ma gli Usa conservano un considerevole soft power, essendo comunque la più grande a cambi correnti,e una ripresa americana è un ingrediente indispensabile per tirare il mondo fuori dalle secche (grazie, direbbe la Cina, noi ci siamo già tirati fuori…).
Se i sondaggi avranno ragione, il programma economico di Biden potrebbe dare un notevole impulso alla crescita Usa. Ma ci sono incognite, dovute al disfunzionale sistema elettorale americano (nelle ultime elezioni Hillary Clinton prese quasi 3 milioni di voti più di Trump, ma fu lui a essere eletto…).
Tutto questo avviene mentre nel mondo scorre una seconda ondata di Covid-19 e le infezioni si allargano, in Europa anche più che in America. Fortunatamente, la mortalità diminuisce (abbiamo imparato a curare prima e meglio, e si ammalano ora più i giovani degli anziani) e all’orizzonte si stagliano i vaccini, indispensabili per una definitiva vittoria medica sul virus. In ogni caso, la seconda ondata è molto sotto la prima, specie se si tiene conto del fatto che i contagiati “veri” da SARS-CoV-2 erano, nella prima ondata, molte volte di più rispetto ai dati ufficiali.
Le cifre della congiuntura mostrano che la ripresa, malgrado i venti contrari dei contagi, continua, con maggior vigore nel manifatturiero che nei servizi (risale il commercio internazionale, mentre la morte delle catene globali di offerta si rivela, come avrebbe detto Mark Twain, grossolanamente esagerata).
Una fattezza – insolita e cruciale – di questa crisi sta nel fatto che la forte risposta delle politiche economiche (di bilancio e monetarie) ha sostenuto i redditi di famiglie e imprese in maniera formidabile. Un esempio: negli Usa, in aprile quasi 21 milioni di americani persero il posto di lavoro, ma il reddito disponibile reale pro-capite si ritrovò del 15% superiore a un anno prima, grazie a sussidi e trasferimenti. Il tasso di risparmio di aprile balzò a un incredibile 33% (ad agosto è sceso al 14%, che è sempre di molto superiore alle medie storiche). Anche negli altri Paesi il tasso di risparmio è aumentato di molto e questo gruzzolo è un “tesoretto” che ha cominciato a essere speso, e ce n’è ancora una buona parte nel salvadanaio.
L’inflazione rimane bassa: in Italia e in Europa un po’ sotto lo zero per l’indice totale, e appena sopra lo zero per l’indice core(al netto di alimentari, energia e tabacco). In America, invece, dove l’economia ha retto meglio che in Europa, è stato solo nel mensis horribilis di aprile che i prezzi sono stati schiacciati vicino allo zero. Gli ultimi dati li danno, sia per l’indice totale dei prezzi al consumo che per la misura preferita dalla Fed (deflatore core della spesa per consumi privati), a livelli intorno all’1,5%, analoghi a quelli del pre-virus.
Nei prezzi alla produzione ci sono, anche in Europa e Cina oltre che negli Usa, segni di risveglio inflattivo, se così si può chiamare una dinamica che va, mettiamo, dal -4% al -2%. Un risveglio confermato anche da materie prime e petrolio, in linea con quanto detto sopra per la ripresa della manifattura e del commercio internazionale.
Sui tassi a lunga i livelli non sono molto variati rispetto al mese scorso per Bund e T-Bond, ma c’è stata una significativa discesa dei rendimenti dei BTp, con uno spread sul Bund sceso sotto i 130 punti base e un rendimento sotto 0,80%. Ormai i titoli a 10 anni in Italia rendono quanto quelli dei T-Bond. Si può disquisire sui fattori che (non) spiegano questa equivalenza – diversa forza dell’economia, diversa posizione di finanza pubblica, diverse attrazioni geopolitiche… – ma alla fine bisogna concludere che i mercati considerano i titoli pubblici italiani altrettanto sicuri di quelli statunitensi (e hanno ragione). La discesa dei rendimenti dei BTp si vale anche di qualche fattore intangibile: una maggiore stabilità politica (post-elezioni regionali e locali), qualche più ottimistica previsione sul Pil italiano del terzo trimestre e la relativamente buona performance del nostro Paese nel contrasto al virus.
Lo spread nei tassi reali a lunga fra Germania e Stati Uniti si è ormai azzerato, ed è una delle cause della debolezza del dollaro, che si è svalutato del 5 e passa per cento rispetto all’euro dall’inizio dell’anno. Quello che succederà nei prossimi mesi dipende da variabili che sono al di fuori della cassetta degli attrezzi degli economisti: virus ed elezioni Usa.
Lo yuan, che aveva ceduto nei primi mesi dell’anno, quando la Cina era sotto il tiro del Covid-19, ha recuperato fortemente terreno, ed è passato (contro dollaro) dal 7,17 di fine maggio al 6,71 più recente (un apprezzamento di più del 6%). È da ritenere che questo più forte livello durerà, dato che l’economia cinese è più avanti di tutte le altre nella strada della ripresa.
E i mercati finanziari? Prima ondata, seconda ondata, terza ondata… Con signorile distacco, le quotazioni azionarie continuano a ignorare il Covid-19. Dopo una prima brusca caduta (peraltro molto meno forte di quella sofferta con la Grande recessione), i prezzi delle azioni si sono riportati oltre o in prossimità dei massimi ante-virus. In effetti, i confronti storici dicono che nel lungo periodo la classe di asset più redditizia sono state le azioni. Allora, perché preoccuparsi? Siamo usciti dalla Grande recessione col vento in poppa, e lo stesso accadrà con il Great Lockdown (copyright del Fondo Monetario). Insomma, le azioni possono solo salire, a parte brevi e miserevoli inciampi. Auguri.