‘’Stamane cortei di dimostranti fra cui gli operai delle O.ME.CA., i dipendenti dell’Enel, i ferrovieri, percorrono le vie del centro per ricordare ai reggini che la protesta continua. I negozi e gli uffici chiusi, fermi gli autobus. A gruppi, i dimostranti bloccano le strade di accesso alla città dal versante tirrenico che da quello ionico. Sulle strade del centro vengono innalzate rudimentali barricate utilizzando anche autobus dell’A.M.A. bloccati in vari punti della città e quindi messi di traverso sulla strada. Anche le vie d’uscita dell’aeroporto vengono sbarrate da ostruzioni.I primi incidenti si verificano poco prima di mezzogiorno. Un gruppo di dimostranti danneggia con lancio di pietre alcune finestre di Palazzo S. Giorgio, in un’altra zona della città viene divelto il cancello principale della sede dell’Inail e i dipendenti sono costretti a sospendere il lavoro’’.
Così le cronache dell’inizio dei Moti di Reggio Calabria. Nel 1970 vi era stata – accolta con grandi speranze – l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario. In quella circostanza, in Calabria, stabilirono che gli uffici del nuovo Ente dovessero essere a Catanzaro. A Reggio Calabria la decisione suonò come un insulto. Vi furono vere e proprie sommosse popolari: ci scapparono persino due morti negli scontri tra dimostranti e Forze dell’Ordine (un ferroviere ed un brigadiere di Pubblica Sicurezza).
Fatti analoghi si svolsero anche in Abruzzo, a L’Aquila, in seguito alla scelta di Pescara come capoluogo. La Federazione del Pci venne presa d’assedio: i dirigenti e gli impiegati vennero fatti uscire tra gli sputi e gli insulti. A Reggio Calabria i partiti si spaccarono: un pezzo della Dc (sindaco in testa) e le destre appoggiarono la rivolta. Il Psi si trovò nel mirino, dal momento che il suosegretario nazionale Giacomo Mancini era calabrese (anziano, prima di morire, è tornato a fare politica nella sua regione, come sindaco di Cosenza) e veniva accusato di aver tradito i reggini. Il Pci (insieme alla Cgil) – oh! Gran bontà dei cavalieri antichi! – tenne una linea di assoluta fermezza: bollò quei moti come se fossero populisti e fascisti. Per molti mesi non cedettedi un millimetro; i militanti si asserragliarono nei locali della Federazione e fecero sapere che non era conveniente prenderli d’assalto. Nessuno osò provarci.
La città scivolò nelle braccia del Msi che prese le parti della causa reggina. E nelle elezioni successive il partito di Giorgio Almirante raccolse un sacco di voti e mandò in Parlamento uno dei caporioni della rivolta: Francesco (Ciccio)Franco, già “condottiero vociante” delle guerriglia urbana, sindacalista della Cisnal (ha cambiato nome in Ugl e si è ripulita), militante del Msi da cui era stato espulso (e riammesso) almeno cinque volte.
La sommossa, iniziata nel luglio del 1970 (quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario), proseguì anche nei primi mesi del 1971. In città c’era una sola fabbrica metalmeccanica di una certa consistenza: le Officine Omeca, produttrici di materiale ferroviario. Nelle prime ore, gli operai erano stati i primi a salire sulla barricate. Poi era cominciata una lenta azione di recupero. Per placare lo scontento l’Assemblea regionale deliberò un progetto di dislocazione articolata degli uffici pubblici (la Giunta a Catanzaro, il Consiglio a Reggio Calabria, l’Università a Cosenza).
Dal canto suo, il Governo decise di costruire il V Centro siderurgico in provincia di Reggio Calabria, nella Piana di Gioia Tauro. Non era la prima volta che colossali insediamenti dell’industria di base dovevano servire a risolvere problemi sociali. La chimica sarda, ad esempio, fu pensata come alternativa al banditismo e all’industria dei sequestri. Ai sindacati il V Centro sembrava una grande opportunità; non così ai reggini. La storia e l’economia hanno dato regione alla loro sfiducia. In quella località si sono distrutte rigogliose coltivazioni e si sono inseguiti progetti diversi. Sfumata l’ipotesi della siderurgia, si è pensato ad una Centrale dell’Enel, poi, anche questa soluzione fu accantonata.
E’ rimasto il porto. Doveva essere la struttura di servizio all’impianto siderurgico, invece ha trovato una sua interessante convenienza come porto vero e proprio. Pare che svolga anche una discreta attività (ma per la sua collocazione geografica potrebbe svolgere una maggiore attività): il suo problema sta nella fragilità del sistema stradale per raggiungere le banchine o per allontanarsi da esse. Ovviamente queste considerazioni valgono al netto delle infiltrazioni della criminalità organizzata. Al dunque, i reggini sapevano bene che gli uffici della Regione avrebbero portato occupazione “pesante” e garantita per alcune migliaia di persone. In qualche modo i fatti hanno dato loro ragione. Ma questa è tutta un’altra storia.