Il Coronavirus gioca a favore di Donald Trump. Al contrario, Joe Biden – che ha appena sconfitto Bernie Sanders nelle primarie democratiche – parte con uno svantaggio competitivo proprio a causa della pandemia. È questa la lettura controcorrente di Stefano Silvestri, ex presidente dell’Istituto Affari Internazionali (Iai), di cui è oggi consigliere scientifico, e consulente per la politica estera di vari governi italiani. «Nei momenti di crisi, il riflesso automatico americano è quello di stringersi intorno al presidente – spiega Silvestri – E Trump sta cercando in tutti i modi di presentarsi come un presidente di guerra. Anzi, lo ha perfino dichiarato: si è definito “war president”. Una strategia che per ora sta funzionando: anche se marginalmente, dall’inizio dell’emergenza il suo indice di consenso è cresciuto». Certo, non è detto che questa tendenza continui fino a novembre, quando si terranno le elezioni presidenziali, ma si tratta comunque di un primo segnale.
Ci dobbiamo aspettare quindi una campagna elettorale inedita?
«In realtà, la gara non è ad armi pari sotto il profilo della comunicazione. E l’elemento distorsivo è ancora una volta la pandemia. Trump al momento tiene dei briefing quotidiani trasmessi in diretta tv dalla Casa Bianca, durante i quali ovviamente non parla solo di coronavirus, ma di tutto quello che vuole. Un palcoscenico simile Biden non l’avrà mai. La differenza in termini di visibilità è enorme».
In queste condizioni, prima ancora degli elettori, sono stati i vertici del Partito Democratico a puntare su Biden. Secondo lei è stata la scelta migliore?
«Nel complesso, Biden è il candidato che sembra avere più possibilità. Contro Sanders, Trump avrebbe potuto mobilitare facilmente buona parte del centro, cioè i candidati indipendenti, che spesso fanno la differenza al momento della scelta elettorale. Lo si è visto alle scorse elezioni, quando Clinton prese molti più voti di Trump, ma perse in alcuni Stati chiave e fu sconfitta. A tradirla furono molti elettori della sinistra democratica, che non la votarono per concentrarsi su una serie di piccoli candidati indipendenti, in una sorta di protesta contro di lei. Il problema di Biden è proprio riuscire a riconquistare questi voti».
Molti degli elettori di cui parla sono giovani, che in prevalenza sostenevano Sanders. Pensa che alla fine gli under 30 si adatteranno a votare Biden o ripiegheranno ancora sugli indipendenti?
«Il rischio per il Partito Democratico esiste. L’aspetto positivo è che questa volta ne sono molto più consapevoli rispetto a quattro anni fa. Non a caso, nel ringraziare Sanders per il suo ritiro, Biden ha parlato anche di ridurre le tasse universitarie e di facilitare l’accesso all’educazione. L’obiettivo è ricalcare – in parte – alcuni punti del programma di Sanders che piacciono alla sinistra. Sembra poi che Biden abbia deciso di proporre una donna come vicepresidente: anche questa mossa dovrebbe aiutarlo a migliorare la sua immagine, che al momento è un po’ troppo da vecchio patrizio…».
D’altra parte, nel corso delle primarie Sanders ha perso molti voti fra gli operai del Midwest e gli afroamericani del Sud. Come si spiega?
«Credo che queste persone abbiano pensato alla necessità di dare un voto utile. Nessuno di loro pensava che Sanders sarebbe stato in grado di battere Trump e, dal loro punto di vista, porre fine a questa presidenza è l’unico obiettivo che conta davvero».
Quello che sta succedendo con l’epidemia di coronavirus dà ragione a Sanders sulla necessità di rivoluzionare il sistema sanitario americano?
«La sanità statunitense ha chiaramente molti difetti. Ha dei picchi di qualità eccezionali, ma non è universale, e questo per noi europei è un aspetto molto negativo. Negli Usa, però, la media dell’opinione pubblica non è mai stata di questo avviso. Basti pensare a Elizabeth Warren, che sulla sanità si era esposta ancora più di Sanders, salvo poi raccogliere pochissimi voti. Per non parlare dell’Obamacare: una riforma tutto sommato timida e poco efficace, che però è apparsa già troppo rivoluzionaria, tanto che i Repubblicani hanno passato gli ultimi anni a cercare di smantellarla».
Ora che le primarie democratiche sono archiviate, che valore ha il sostegno di Sanders a Biden?
«È presto per dirlo. Quelli di Sanders non sono certamente voti di partito: si tratta di un elettorato indipendente, il cui comportamento è difficile da prevedere. L’appoggio di Sanders aiuta sicuramente Biden, ma non è affatto detto che possa risultare decisivo. Quanto alle altre esponenti della sinistra americana, Ocasio-Cortez ha già detto chiaramente che intende appoggiare Biden, mentre Warren finora non si è espressa».
A questo punto il sogno di Sanders, che ha 78 anni, si è definitivamente infranto?
«Dopo due tentativi falliti, direi che l’obiettivo della Casa Bianca è tramontato. Questo però non significa che la sua carriera politica sia finita. Un presidente riformista potrebbe affidargli dei portafogli interessanti: ad esempio quello della sanità, oppure, meglio ancora, quello dell’educazione».