È strano che in questi giorni, in cui si evocano a profusione similitudini e immagini belliche per le condizioni di emergenza create dal coronavirus e si parla di shock dell’offerta, è strano, dicevo, che nessuno – e tantomeno il supercommissario Arcuri – si sia ricordato della Mobilitazione Industriale. È il meccanismo di produzione e fornitura messo in piedi dal generale Alfredo Dallolio nel settembre del 1915, che permise all’esercito italiano di respingere la “spedizione punitiva”, di sostenere le battaglie dell’Isonzo e di resistere sul Piave.
La Mobilitazione Industriale si basava su “stabilimenti ausiliari” allo sforzo bellico (in prevalenza meccanici e siderurgici, ma anche tessili) e li suddivideva in unità macroregionali presiedute da un militare, ma nel cui comitato direttivo sedevano anche imprenditori e sindacalisti.
Gli “stabilimenti ausiliari” godevano di tre privilegi:
- precedenza nella fornitura di materie prime;
- militarizzazione dei lavoratori;
- pagamento “a pié di lista” delle forniture senza alcun controllo amministrativo, né tantomeno della Corte dei Conti.
È ovvio che con queste “regole” emergenziali ci furono gravi episodi di corruzione, e lo stesso Dallolio fu posto sotto accusa, ma il meccanismo funzionò (per un primo sintetico riferimento si veda Fortunato Minniti, Alfredo Dallolio, in AA.VV, Protagonisti dell’intervento pubblico in Italia, Ciriec, Franco Angeli, 1984, pp. 179-204).
Ora, dopo tutta la retorica sull’Italia secondo paese manifatturiero d’Europa, dopo tutti i circostanziati elogi alle nostre imprese capaci di virtuosismi produttivi, non siamo in grado di riconvertire il nostro apparato industriale in modo da fabbricare tamponi, mascherine, strumenti medicali per la respirazione e quant’altro serve a sostenere lo sforzo dell’apparato sanitario nazionale e dei cittadini? È vero o no che questa è una guerra di lungo periodo e che nessun vaccino è in grado di proteggere tutta la popolazione in modo definitivo, data l’imprevedibilità del virus?
Ieri sera ho appreso da un telegiornale che l’unica fabbrica che produce mascherine omologate in Italia è una ditta di Rho, che adesso lavora ventiquattr’ore su ventiquattro, ma che, se non ho capito male, è poco più di una microimpresa.
Ma scherziamo? Dopo tutto il chiacchiericcio che abbiamo fatto sul made in Italy e sulle eccellenze della produzione medicale nazionale destinata all’esportazione, per un aspetto decisivo per combattere il contagio ci troviamo a dipendere da un piccolo – seppure eroico – produttore? Dobbiamo continuare ad aspettare dall’estero forniture adeguate a proteggere medici, infermieri, lavoratori, e tutta la popolazione che dovrà convivere con l’emergenza per mesi?
Forza economisti, tecnologi, studiosi di organizzazione macro e micro, andate a ristudiare l’esperienza della Mobilitazione Industriale. Possibile che, dopo un secolo, non si trovino i modi e i canali per attivare in tempi brevissimi le energie produttive del paese per indirizzarle alla “guerra” contro l’epidemia, senza “militarizzare” le forniture, e proteggendo le lavoratrici e i lavoratori del “fronte interno”? Possibile che il richiamo alla guerra in atto debba essere solo vuota retorica?
Da storico, devo ricordare la lezione del passato. Adesso tocca a voi.
°°°L’autore è Professore Senior di Storia economica all’Università Bocconi di Milano
Sono assolutamente favorevole alla apertura annunciata per il 4 maggio, anzi per alcuni settori (con tutte le precauzioni del caso) sono favorevole alla riapertura a far tempo dal 27 aprile p.v.
Trovo assolutamente demenziale l’impossibilità di potersi muover ed uscire dalla propria regione per coloro che hanno la doppia casa, sempre nella piena osservanza delle ormai famose norme precauzionali (mascherina, guanti, gel igienizzanti, etc.)
Novi Beograd
A gde moze biti