La questione del merito
È in libreria un volume curato da Maria Cristina Origlia che racconta 10 storie di economisti, scienziati, intellettuali italiani che hanno costruito la loro brillante carriera investendo sulla cultura del merito. Non a caso il libro porta il titolo Questioni di merito. 10 proposte per l’Italia, pubblicato Guerini & Associati con goWare per l’edizione digitale.
Maria Cristina Origlia affronta il tema della cultura del merito da un osservatorio senz’altro privilegiato. Oltre all’attività di blogger e giornalista, la giovane studiosa è anche presidente del Forum della Meritocrazia. Una iniziativa che si propone di diffondere la filosofia e la pratica del merito in Italia.
I dieci protagonisti che rendono la loro testimonianza alla Origlia, sono tutte persone che hanno costruito le loro carriere, in Italia e soprattutto all’estero, sull’impegno, sulla serietà del loro progetto e sulla determinazione a realizzarlo.
Sono storie che ci confortano e ci mostrano come possa davvero esistere un futuro per l’Italia, quando si decida di riconoscere il valore dello studio, del sacrificio, della serietà e anche della competenza. Principi sani e stimolanti, che non possono più soccombere nei confronti di altri comportamenti più pavloviani.
Un libro, a suo modo, rassicurante che riporta al centro la responsabilità e l’importanza delle scelte individuali e del contributo che l’individuo può dare alla comunità a cui appartiene.
Tra queste 10 testimonianze abbiamo selezionato, per i nostri lettori, quella di Luciano Floridi, professore ordinario di Filosofia ed Etica dell’Informazione all’Università di Oxford. Floridi può essere considerato tra i fondatori della filosofia dell’informazione e uno dei maggiori pensatori a livello internazionale di etica digitale. E Dio sa se abbiamo bisogno di saperne di più!
Buona lettura.
La vocazione
Divorare quattro volumetti sulla Storia della filosofia di Bertrand Russell a dodici anni non può che essere un segno piuttosto inequivocabile di una certa vocazione… Così fu per Floridi, che racconta il suo primo incontro con la filosofia avvenuto in casa, grazie ai libri che circolavano per l’interesse che il padre nutriva per la materia.
«Ricordo che cercai la definizione di filosofia in un’enciclopedia per ragazzi e ne rimasi deluso, mi sembrava un insieme di sciocchezze. Allora mio padre mi diede da leggere Bertrand Russell e ne rimasi totalmente rapito. Ero alle medie. Avrò avuto circa dodici anni, chissà che cosa avrò capito! Ma mi incuriosii e iniziai a pensare che la filosofia era una gran bella cosa».
La formazione scolastica
Dopo il liceo classico (Tito Lucrezio Caro, altro filosofo…), in cui fu l’insegnate di religione — un laico, molto aperto — ad appassionarlo ulteriormente, Floridi racconta che, giunto alla scelta della facoltà universitaria, si ritrovò davanti a tre opzioni. Dice sogghignando:
«Economia, ma in quel caso sarei finito a fare il filosofo dell’economia e allora tanto valeva che facessi filosofia; matematica, ma mi resi conto che è una carriera che finisce presto: a trentacinque anni, come un calciatore. Se non hai scoperto qualcosa di importante prima, sei fuori gioco. Al contrario, filosofia presentava due fattori rassicuranti: innanzitutto, capii che offre una carriera lunga, soprattutto in termini di illusioni (fino a novant’anni puoi sperare di illuminare l’umanità) e, poi, che è una sorta di passepartout per studiare qualsiasi altro ambito che ti possa interessare. Sei un po’ il dongiovanni delle discipline. Ed è astratta come la matematica. Ma soprattutto, con un po’ di autoriflessione, ho realizzato che uno che ragiona così a diciassette anni non può che studiare filosofia».
Bocciato in Italia
Come dargli torto? Ma il suo sbarco ad Oxford fu casuale, almeno apparentemente. L’artefice fu niente meno che la nonna materna, un giorno in cui — mentre era un giovane studente della Sapienza — gli diede un ritaglio di giornale che annunciava l’offerta di borse di studio da parte della prestigiosa università britannica.
«Non la presi sul serio, ci risi su, ma per farla contenta risposi all’annuncio. Ed eccomi catapultato a Oxford con una borsa di studio. Poi sono tornato in Inghilterra a fare il master e il dottorato a Warwick e così ho iniziato il mio percorso qui».
Alla domanda, scontata, sospira:
«Perché non proseguire il percorso in Italia?» — Floridi mi sorride con un lampo di disappunto — . «Non ho mai collezionato tante bocciature come in Italia. Mi hanno bocciato per il dottorato, per il concorso da ricercatore, per la cattedra da professore associato… insomma le definisco disavventure italiane».
La spiegazione a queste disavventure italiane è ancora più sconfortante:
«Semplicemente non conoscevo qualcuno che potesse darmi una mano. Il sistema si basava, almeno allora, in buona parte sulla cooptazione, quindi senza conoscenze non avevo alcuna possibilità. Funzionava così».
In fondo — penso — per lui è stata una fortuna. L’Italia ha perso un promettente professore di filosofia, ma Floridi ha vinto al Lotto.
Promosso a Oxford
Oxford gli ha dato l’opportunità di iniziare a lavorare a fianco di due grandi logici, che gli hanno insegnato a pensare: Michael Dummett, scomparso di recente, uno dei più grandi filosofi al mondo («che mi dedicava interi pomeriggi, mi chiedo oggi dove trovasse il tempo…»), e Susan Haack, che è stata il suo supervisore durante il dottorato a Warwick.
«Ma la svolta c’è stata quando, dopo aver lavorato a lungo sulla logica, ho avuto la possibilità di approfondire altre mie grandi passioni: l’informatica e le scienze sociali ed economiche. Mi hanno offerto un post-dottorato a Oxford di quattro anni in cui ero completamente libero di studiare quanto desideravo, senza dover mai rendere conto a nessuno!».
E questo ha fatto la differenza, perché ha iniziato ad approfondire materie allora sconosciute — era la metà degli anni Novanta — e, quando nel 1999 si presentò l’occasione di intervenire in un convegno, esordì con una relazione dal titolo Dovrebbe esserci una filosofia dell’informazione?.
«E finalmente ho iniziato a fare più goal di quanti ne ricevessi! Anche se ricordo che parlai con un grande esperto in Italia che ancora oggi trombeggia — di cui non faccio il nome per camera caritatis — che mi disse: “Internet è una moda, non durerà”».
L’Italia si desta
Così è cominciata la sua carriera da filosofo della rete, passando da un contratto temporaneo all’altro per un bel po’ di tempo, fino a quando — poco dopo i trent’anni — mentre insegnava a Oxford a contratto, vinse finalmente e inaspettatamente un concorso di logica come professore associato a Bari.
Mancando un anno all’insediamento, si prese un anno sabbatico da dedicare completamente all’attività di ricerca. Ma, in realtà, la parentesi sabbatica è durata altri cinque anni!
«All’università di Bari devo molto per la piena libertà di movimento, di contenuto, di lezioni. Insomma, io vivevo tra la Gran Bretagna e l’Italia, stavo mesi a Bari, ma poi partivo per lunghissimi periodi di ricerca all’estero. Una cosa inconcepibile in altri paesi».
L’indignazione che mi assale attraversa la Manica e arriva dritta al mio interlocutore, che mi offre una spiegazione filosofica:
«Diciamo che nel nostro paese non c’era sufficiente meritocrazia e questo spesso veniva tradotto, erroneamente, come la possibilità per gli incompetenti di fare carriera. Ma non è così. È che l’impegno, il merito erano spesso slegati dalla carriera. In genere, questo non significa che chi fa carriera è un incapace, ma che l’ha fatta spesso per altre ragioni che vanno oltre la bravura e le competenze: grazie a chi conosce, a come si è comportato, ai servizi che ha svolto nella sua comunità ecc. Come spesso non conta — nel bene e nel male — se hai pubblicato qualcosa che ha fatto la differenza nel mondo… Quando a Bari ho chiesto come potevo diventare professore ordinario, mi hanno chiaramente detto che non sarebbe mai stato possibile. Perché semplicemente non ero di lì. L’anno successivo sono ripartito».
No comment…
Di nuovo via dall’Italia
A quel punto, si è reso conto che il rientro in Italia non faceva per lui. E così il paese l’ha perso un’altra volta. In Inghilterra gli proposero una cattedra Unesco per l’etica dell’informatica che avevano istituito assieme al governo inglese, presso l’Università di Hertfordshire, a nord di Londra.
«Bellissimo posto, molta ricerca, poco insegnamento, zero burocrazia. Insomma mi trovavo molto bene. Poi, cinque anni fa, Oxford mi ha offerto una nuova cattedra sulla Filosofia ed Etica dell’Informazione, creata su misura per me, con una formula che avevo coniato io, e quello è stato il riconoscimento di tutto il lavoro svolto sino ad allora».
Ritorno a Oxford con una cattedra su misura
Eppure mi rivela che ha scelto sorprendentemente di insediare la nuova cattedra non nel Dipartimento di Filosofia, ma all’Oxford Internet Institute, che fa parte di Scienze sociali, un dipartimento multidisciplinare e solo di ricerca (non ci sono studenti di laurea), con poche ore di insegnamento (per l’esattezza, tiene un corso con solo otto conferenze all’anno rivolte a studenti di master e dottorato!).
«La multidisciplinarità è fondamentale — afferma, — la predichiamo quasi tutti, ma quasi nessuno la pratica, perché non premia a livello accademico. Devi essere facilmente riconoscibile per poter essere inserito in un percorso di crescita che è una catena di comando, per cui intervieni a quelle conferenze, pubblichi in quelle riviste… e di corsa. Se non è chiaro di che cosa ti occupi, rischi di vederti passare avanti altri colleghi più identificabili, perché di competizione, comunque, si tratta».
La filosofia oggi
Ma dietro questa scelta c’è anche una presa di posizione contro la filosofia di oggi, che è diventata — a suo avviso — solo filosofia accademica.
«Non si occupa più del mondo, quando invece tutti i grandi filosofi, da Socrate, Platone e Aristotele, a Cartesio a Wittgenstein, ti parlano. Oggi molta della filosofia che facciamo è scolastica: non ci occupiamo di problemi filosofici (philosophical problems) ma dei problemi dei filosofi (philosophers’ problems), a un livello talmente minuzioso, che potremmo definire il sesso degli angeli. Sono problemi irrilevanti, la cui soluzione, qualsiasi essa sia, sinceramente non interessa a nessuno. La cosa migliore che si può dire in proposito è che si tratta di un motore in folle, che si tiene accesso senza andare da nessuna parte, in attesa che qualcuno ingrani la prima marcia per ripartire».
Non si può dire che Floridi non parli chiaro. Ciò che intende dire è che la filosofia è l’ultimo livello di riflessione su problemi rimasti irrisolti dalle altre discipline e, quindi, tende necessariamente all’autoriflessione.
Se non la trascini fuori da questa condizione diventa totalmente autoreferenziale.
«Se il mondo non la tira in ballo, la filosofia gira su se stessa. Ci sono stati periodi storici come quello dell’Atene del V secolo, in cui una serie di problematiche di tipo sociale ed economico hanno preso per la giacchetta la filosofia e allora si è resa utile. La filosofia si fa i fatti suoi fino a quando il mondo non urla che ha bisogno di lei».
La filosofia è design concettuale
Qualcuno oggi, però, sta urlando, ribatto. La rivoluzione digitale è quella che si fa più sentire, poi ci sono la crisi della democrazia, dell’economia con il tema delle crescenti disuguaglianze e quella dell’ambiente, ma sono tutte connesse.
«Quello che io mi aspetterei è che da questo coacervo di crisi fuoriesca una filosofia che parla al mondo, una filosofia per il mondo e del mondo. La mia definizione — forse anomala — di filosofia è design concettuale, ovvero un modo di sviluppare e mettere assieme analisi di come funzionano i problemi e analisi di come funzionano le soluzioni. E sono profondamente convinto che la filosofia oggi debba occuparsi soprattutto di come il digitale sta trasformando il mondo, in maniera fondazionale naturalmente».
L’informazione
È ciò che lui stesso sta facendo iniziando a formulare una filosofia del XXI secolo per il XXI secolo, che significa concentrare l’attenzione sul fenomeno dell’informazione. Su questo tema sta per pubblicare con Oxford University Press il quarto volume dei fondamenti di una filosofia dell’informazione, dedicato in particolare alle politiche dell’informazione.
I primi tre sono: The Philosophy of Information (2011), The Ethics of Information (2013) e The Logic of Information (2019), tutti editi dalla Oxford University Press. Un imponente lavoro teso a svelare cinque equivoci del nostro tempo, vecchi paradigmi filosofici che hanno funzionato molto bene in passato ma non funzionano più nel mondo trasformato dal digitale, e a indicare una nuova direzione. Il tutto interpretato attraverso il classico modello di comunicazione introdotto da Shannon: mittente, messaggio, destinatario, canale.
Vecchi modelli in sofferenza
«L’epistemologia — mi spiega — si concentra troppo sul ricevitore/consumatore passivo della conoscenza, quando oggi dovrebbe riguardare il mittente/produttore attivo, perché la conoscenza è design e costruzione (in linea con quanto ci ha insegnato Kant). L’etica fa il contrario: si concentra troppo sul mittente/agente, quando dovrebbe riguardare il ricevente/paziente, perché al cuore del bene ci sono la cura, il rispetto e la tolleranza (in linea con l’etica femminista e ambientalista). La metafisica si concentra troppo sui relata, i vari mittenti, produttori, agenti, destinatari, consumatori, pazienti, che concepisce come entità, quando dovrebbe occuparsi del messaggio/relazioni, perché le strutture dinamiche costituiscono le componenti/nodi (in linea con molta della filosofia della matematica e della fisica contemporanee)».
Se applichiamo la stessa modalità di lettura alla logica nell’era dell’informazione, allora — si infervora Floridi — ci accorgiamo che si concentra troppo sui canali di comunicazione per giustificare o radicare le nostre conclusioni, quando dovrebbe riguardare i canali che ci permettono di estrarre e trasferire informazioni da una varietà di fonti in modo affidabile.
E infine, la politica riguarda la progettazione e il miglioramento anzitutto delle relazioni (inclusi i canali di comunicazione), e dopo dei relata, e quindi prima la ratio publica, e poi la res publica, in linea con un modo relazionale e reticolare di pensare il sociale.
«Devo ammettere che sarò completamente stupito se anche una di queste inversioni a U nei nostri paradigmi filosofici avrà successo, ma almeno il lettore è pienamente consapevole della natura non ortodossa del mio punto di vista filosofico. Insomma, sa quello che compra!».
La quarta rivoluzione nel nome di Turing
La sua analisi non finisce qui e arriva a delineare una quarta rivoluzione nella comprensione di noi stessi, dopo quella copernicana, darwiniana e freudiana.
«Si tratta di quattro rivoluzioni nel nostro modo di concepire noi stessi. Con Copernico, abbiamo perso la centralità nell’universo. Con Darwin, abbiamo perso la centralità nel mondo animale. Con Freud, è saltata la centralità nel mondo della coscienza. Il mio suggerimento è che Alan Turing (considerato il padre dell’informatica) ha comportato una quarta rivoluzione, che ci ha tolto dalla centralità dello spazio dell’informazione, quello che chiamo infosfera. Oggi esistono molti agenti che lavorano con le informazioni per noi, al posto nostro, e spesso meglio di noi, e questo sarà sempre più comune. Non siamo gli unici a saper giocare a scacchi e non siamo neppure i più bravi. Dovremmo ripensare quindi il ruolo che abbiamo e la nostra unicità».
Si riferisce, naturalmente, all’intelligenza artificiale e all’incredibile accelerazione tecnologica che ci impone di trovare una nuova identità.
Una nuova centralità
Quello che dovremmo fare, secondo Floridi, è «smetterla di cercare di metterci al centro di qualche altro spazio, e accettare che siamo alla periferia, ma che precisamente questo ruolo è speciale. Esso ci permette di essere al servizio dell’altro. Con una semplice analogia, dovremmo smettere di pensare che la festa sia bella perché è la nostra festa, e iniziare a pensare che lo sia perché l’abbiamo organizzata noi, per l’altro, sia esso rappresentato dal mondo delle cose naturali o artificiali, dalla presente, passata o futura generazione di esseri umani. Chi è a quel punto al centro? La risposta è ovvia: la relazione stessa. Per fare due esempi: Alice e Mario non sono al centro l’uno dell’altro, ma è il loro matrimonio a doverlo essere; i partiti non sono al centro l’uno dell’altro, governo o opposizione, ma è la politica a doverlo essere. Per questo in politica dovremmo curarci soprattutto della ratio publica prima ancora che della res publica».
Ripensare la democrazia
Gli effetti sulle nostre strutture sociali e politiche non sono di poco conto, avverte. In politica, il digitale ha svelato il bluff moderno secondo cui la democrazia rappresentativa costituisce un compromesso dovuto all’impossibilità tecnico-demografica della democrazia diretta. Ovvero, siamo troppi e dobbiamo delegare, come argomentava (erroneamente) John Stuart Mill.
Questo mito, e la narrativa che lo circonda di un’Atene idealmente democratica (ci si dimentica gli schiavi, le donne, gli stranieri, la fine che ha fatto Socrate ecc.), oggi è stato superato dalla possibilità di essere tutti votanti sempre, se solo lo volessimo, mediante la rete.
«Risultato: ripensare la democrazia rappresentativa, che fin dall’inizio non è mai stata un ripiego, ma è da sempre la vera soluzione. Il che non significa che allora la democrazia diretta è una buona idea, ma che le motivazioni con cui abbiamo argomentato contro di essa erano errate. Il vero problema della democrazia diretta è che instaura la dittatura della maggioranza, cosa della quale già si preoccupavano i padri fondatori della democrazia americana. Una democrazia è buona se protegge le minoranze, non se rende la maggioranza prepotente. Per fare questo e ottenere una buona democrazia, coloro che hanno il potere (sovranità) non devono esercitarlo, ma delegarlo a coloro che lo esercitano senza possederlo (governance). È questa separazione strutturale che sta alla base di ogni democrazia, poi vengono i valori e le regole. Il digitale ce l’ha fatto capire togliendo di torno il mito ateniese».
Il digitale non è una panacea
E anche sulla questione ambientale, il digitale potrebbe essere una grande forza a favore di politiche verdi, se imparassimo ad usarlo scientemente. In passato si è immaginato un mondo «dematerializzato», ma la realtà dei fatti è che, anche a causa del digitale, produciamo più carta e stampiamo più libri. Si pensi ad Amazon; il commercio elettronico ha creato interi nuovi settori per lo spostamento di «atomi usati». Si pensi a eBay e ai corrispondenti servizi postali.
Il digitale ha contribuito ad abbattere i costi dei voli aerei, incrementandone il numero. Per non parlare delle monete digitali, come Bitcoin, che assomigliano a piccole lampadine accese! Il vantaggio del digitale è che aiuta l’analogico non perché lo rimpiazza, ma perché permette di fare molto di più con molto meno, ottimizzando le risorse, diminuendo gli sprechi, favorendo nuove attività produttive che altrimenti sarebbero insostenibili finanziariamente.
In sostanza, afferma Floridi:
«Ci sono ragioni per essere fiduciosi. Abbiamo iniziato a parlare di economie circolari, in cui il digitale è un elemento fondamentale. Ma il digitale non è una panacea. È una cura, e come tale presenta sia costi sia controindicazioni. Può fare molto bene all’ambiente e all’economia, ma non a costo zero o senza rischi. La sfida è che l’impatto positivo salvi il nostro pianeta prima che altri fattori, incluso l’impatto negativo del digitale, lo distruggano. Il che significa che il conto alla rovescia è già iniziato. Non abbiamo secoli a disposizione, solo decenni. Forse un paio di generazioni. C’è quindi molta urgenza».
L’etica del digitale
Sull’etica, infine — il suo tema d’elezione — il digitale ha rafforzato una trasformazione già in atto, soprattutto grazie all’etica medica e alla bioetica: il passaggio dalla centralità dell’agente (chi compie l’azione morale) alla centralità del paziente (chi subisce l’azione morale).
«Invece di porci sempre e solo le tre domande fondamentali — chi dovrei essere, che cosa dovrei fare, perché dovrei farlo — il digitale, grazie anche alla quarta rivoluzione di cui ho parlato sopra, ci invita a chiederci che cosa è buono per il ricevente. Questo spostamento di prospettiva significa dare priorità a un’etica dell’ascolto e quindi della risposta e del servizio, della cura, dell’attenzione all’altro. Indica anche la fondamentale importanza dell’ontologia in etica: per capire che cosa è bene per chi riceve l’azione morale, bisogna conoscerne la natura e capirne le esigenze e i bisogni, anche solo impliciti. Il primo passo etico diventa allora ascoltare e capire, e poi parlare e agire. Se la politica farà lo stesso, e se saremo più onto-centrici nel modo in cui trattiamo il mondo, allora le future generazioni ci saranno grate, per aver creato le migliori condizioni di sviluppo della loro società futura».
Essere ortocentrici
Chiaramente abbiamo un disperato bisogno di esperti in problemi aperti. Si chiamano filosofi!
Floridi si dice pacatamente ottimista, nel senso che — in generale — c’è sempre più richiesta di nuove soluzioni da parte della società civile, di alcuni policy maker, del mondo del business…
«Ma è anche vero che, oggi, i tre governi che conosco meglio — quello britannico, quello americano e quello italiano — hanno raggiunto un livello di degrado impensabile, in cui l’ignoranza ha superato l’insipienza. C’è ignoranza quando non si sa neppure che si dovrebbe porre domande, quando si brancola nel buio senza sapere che la luce è spenta. E questo è l’ultimo stadio, dopodiché c’è solo il caos. Il dispiacere, dunque, è che dall’Italia di richieste di consulti ne arrivano ben poche, perché spesso non sanno di non sapere. Già governi precedenti facevano più domande, almeno erano consapevoli di non sapere e hanno costituito diverse commissioni di esperti, dai trasporti, alle infrastrutture, all’informatica. Insomma, c’era un’esigenza sentita di doverne sapere di più».
Le organizzazione ortocentriche
Per fortuna, ci sono anche casi migliori. La Commissione Europea, ad esempio, è sempre molto attenta, ha la consapevolezza di dover informare adeguatamente i cittadini per far aumentare il sapere collettivo e quindi ha la consuetudine di chiedere, ascoltare anche solo per una funzione di consultazione e di coinvolgimento. E la nuova legislatura della Commissione dovrebbe accelerare questa tendenza.
«Riguardo ai singoli paesi, devo dire che il governo tedesco, francese, quello di tutti i paesi scandinavi e baltici, ma anche la stessa Spagna e il Portogallo, mostrano molta curiosità, esprimono un bisogno di risposte e questo mi fa ben sperare. Ci dovrebbe essere un momento di risalita. In Italia, non ancora — dichiara adombrandosi. — La sua unicità sta nell’avere un bagaglio culturale straordinario, più ricco di qualsiasi altro paese. Il rischio, però, è che venga percepito come una sorta di assicurazione perenne contro qualsiasi rischio futuro. Non è così. La storia non fa sconti, neppure alla sua figlia preferita. La verità è che l’Italia è seriamente a rischio di uscire dal G7, dai paesi più sviluppati del mondo. C’è una parte significativa del paese un po’ distribuita ovunque, ma concentrata al Nord in termini di ricchezza, che esprime ancora una forma di resistenza, ma non basta, ci vuole una rinascita diffusa, un rinnovamento nella cultura sociale del paese».
Paesaggi del Piranesi?
La sua preoccupazione si spinge fino ad affermare che non sarebbe sorpreso se l’Italia, tra cinquanta-cento anni, tornasse ad essere un paese dove tra i monumenti pascolano le pecore, come nelle stampe del Piranesi.
«Ricordiamoci che quelle sono le nostre origini: l’Italia del fascismo è l’Italietta agricola, senza industria, senza alcun ruolo internazionale, che non conta nulla, con qualche ambizione, ma che arriva tardi anche sul fronte colonialista… Insomma, se dovessi fare una previsione sul futuro basata sulla proiezione di quanto vedo oggi, su dove stiamo andando, e l’attuale ondata populista, io direi che stiamo andando molto male. Ma non male nel senso che poi tutto si aggiusta. No, male davvero. Saremo ancora un grande paese dal punto di vista industriale, ma se continua la decrescita educativa, culturale, sociale, economica, politica, a un certo punto quella decrescita la pagheremo con un declassamento».
È anche vero che i paesi si possono salvare, ci possono essere momenti di svolta, a patto però di fare un vero cambiamento. Ad esempio — secondo Floridi — avremmo bisogno di una politica d’immigrazione
totalmente diversa. Dovremmo importare quantità di immigrati, dovremmo abbassare l’età per votare e portarla a sedici anni, cercare di semplificare il sistema del paese, schiacciato da burocrazia e inefficienza, sfruttare seriamente il digitale per promuovere crescita e informazione, cose che, seppure sulla carta si potrebbero fare, sembrano del tutto irrealizzabili.
«Ma la cosa più grave è l’erosione delle competenze, della conoscenza, della cultura intesa come umanistica e scientifica. Il nostro paese è un paese ignorante, questo va detto. Non abbiamo gente abbastanza preparata e troppi se ne vanno e, soprattutto, non tornano. Ci stiamo dissanguando.
Fiducia in se stessi
Lui sarebbe molto contento di dare una mano, senza alcuna presunzione, «come un granellino di sabbia, con umiltà, al miglioramento del paese-spiaggia, nella misura in cui si può fare anche dall’estero».
L’ha già fatto ben volentieri con qualche fondazione, iniziative sociali. E la motivazione è tanto immediata quanto profonda.
«Tutto il mio percorso di studi è stato costellato da insegnanti di grande valore e disponibilità, dalla scuola elementare fino all’università. Mi hanno dato davvero tanto e quindi sento la responsabilità di restituire. In tutti i sensi. Devo dire che più cresci e più capisci che la fortuna, gli eventi, il famoso detto ‘si chiude una porta e si apre un portone’ contano. E questo lo ammetto controvoglia, perché sono stato educato a pensare che ciascuno è responsabile del proprio destino. Homo faber fortunae suae dicevamo al Liceo. Detto questo, quando il destino ti dà una mano, male non fa, ma il senso di responsabilità nel restituire dovrebbe essere proporzionale!».
Ai suoi studenti ripete spesso che bisogna avere fiducia in se stessi, non malriposta, credendosi Napoleone, ma quella fiducia di chi si è impegnato in una scalata in montagna e sa che, chiodo dopo chiodo, arriverà in cima.
«È la fiducia nella capacita di lavorare, sacrificarsi, mettere un paletto per volta e andare avanti così. È questa fiducia che ti dà anche il coraggio di fare scelte difficili e controcorrente, perché sono scelte il cui successo dipende in gran parte da te. Molto dipende dalla tua capacità di perseguire un fine con intelligenza, adattandoti alle circostanze, e dalla certezza — a fronte dell’impegno e di darsi delle regole — di poter raggiungere quell’obiettivo».
Perseveranza e sacrificio
Lui, in effetti, non si è risparmiato. Ricorda, ad esempio, che per imparare l’inglese ha rinunciato a spensierate vacanze durante l’università. Come ha fatto il servizio militare mentre preparava la tesi di laurea.
O, come ha impiegato un solo anno invece dei due previsti per portare a termine il master di filosofia a Warwick. E poi, in un altro anno ha concluso il dottorato.
«Come ho fatto? Studiando ventiquattr’ore al giorno, sette giorni alla settimana per dodici mesi all’anno. Questa è la ricetta. Per me ha funzionato. Non è facile e non è per tutti, ma se hai un obiettivo, la strada da seguire è chiara».
Di certo, ha contato anche la famiglia.
«Devo dire che sono stato fortunato anche su questo fronte, perché i miei genitori mi hanno sempre offerto grande supporto; ho imparato a dibattere di tutto a tavola con loro, persone con idee molto aperte. Mio padre è medico, mia madre cantante, faceva parte dell’orchestra sinfonica della Rai.
Da una parte, una persona molto razionale e, dall’altra, un’artista. Entrambi con grandi valori morali, curiosità, amore per la conoscenza e rispetto per il sapere, chiarezza sul valore del dovere, dell’impegno, dell’onestà. Se con una famiglia così non avessi combinato nulla nella vita, sarebbe stato quantomeno imbarazzante».
Commenta con ironia.
Great expectations
Mi pare soddisfatto di quanto ha realizzato sin qui, ma Floridi non è tipo da accontentarsi. Per il futuro ha grandi aspettative sia sul fronte professionale sia su quello personale. Innanzitutto, è sua ferma intenzione concludere i prossimi due volumi a cui sta lavorando.
«Se qualcuno mi dicesse ‘domani muori’, mi dispiacerebbe, perché vorrei proprio finirli questi due volumi. Datemi tempo di finire questa ricerca — chiederei — perché ce ne è voluto per arrivare sin qui e non voglio lasciarla a metà!».
Ma lo anima anche un sogno nel cassetto: riuscire a creare un centro di studio più grande per il lavoro di ricerca che sta portando avanti con tanti ragazzi talentuosi e meritevoli. Poi, con un sorriso gioviale, aggiunge:
«Per il resto, vorrei tanto poter continuare ad avere la vita che ho adesso: se qualcuno mi dicesse ‘arriverai a ottantacinque o cento anni di questi’, firmerei immediatamente. Questi ultimi sono stati anni veramente bellissimi».
Di lavoro e di amore, mi confiderà.
Estratto dal volume: Maria Cristina Origlia, Questione di merito. Dieci proposte per l’Italia, Guerini e Associati, 2020 (goWare per l’edizione digitale), pp.193–210
Luciano Floridi è professore ordinario di Filosofia ed Etica dell’Informazione all’Università di Oxford. È considerato il fondatore della filosofia dell’informazione e uno dei maggiori esperti internazionali di etica digitale. Per la Oxford University Press, sta completando una tetralogia dedicata ai fondamenti della filosofia dell’informazione: The Philosophy of Information (vol. I, 2011), The Ethics of Information (vol. II, 2013), The Logic of Information (vol. III, 2019), The Politics of Information (vol. IV, in corso).