Vade retro, contropiede. Difficile, nel calcio moderno, trovare un termine che scateni maggiormente l’ira degli allenatori, tanto più quando se lo sentono affibbiare con l’adrenalina della partita ancora in circolo. L’ultimo esempio lo si è avuto domenica sera dopo Napoli-Inter, quando Conte (dalla mix zone del San Paolo) e Capello (ospite negli studi di Sky) hanno avuto un battibecco piuttosto acceso, non trasformatosi in lite solo grazie alla diplomazia di Fabio Caressa. Oggetto del contendere una frase di Don Fabio sul gioco dell’Inter (“sta molto chiusa dietro e sfrutta bene il contropiede”) che ha fatto infuriare Antonio, subito pronto a replicare che “le partite vanno viste, anche se il bello del calcio è che è vario, per non dire avariato”.
Ora, tralasciando le evidenti ruggini tra i due su cui torneremo tra un attimo, stupisce che una semplice analisi tecnica possa provocare tanta stizza, specialmente ripensando a quelle che sono le origini del nostro calcio. Un tempo giocare in contropiede, soprattutto in trasferta, era una regola non scritta e trovava il favore di numerosi critici e addetti ai lavori: basti pensare che il termine fu coniato da Gianni Brera, che usò la seconda fase della danza del coro delle tragedie greche per definirlo al meglio.
Il “Grangiuàn” inoltre non faceva mistero di apprezzarlo molto, sostenendo che gli italiani non fossero fisicamente all’altezza di altri popoli e che quindi dovessero giocare così per imporsi ad alto livello: leggendarie, in questo senso, le sue polemiche con Arrigo Sacchi, vincitore, secondo lui, solo grazie ai campioni olandesi e non certo per le sue idee di gioco. Tanti anni dopo le cose non sono cambiate, perché il mondo del calcio continua a dividersi in giochisti e risultatisti, a patto però di non parlare di contropiede: perché quello, come si è visto domenica, non piace proprio a nessuno. Nelle parole ovviamente, perché nei fatti sono in tanti ad utilizzarlo e Conte non fa eccezione.
Le statistiche di Napoli-Inter non mentono, con gli azzurri vincitori nel possesso palla (66% a 44%), nell’altezza del baricentro (54 vs 42), nei passaggi fatti (629 a 478); e se ancora non bastasse, ecco il primo gol di Lukaku (lancio lungo per il belga a scavalcare lo scivolante Di Lorenzo) a confermarlo meglio di tanti numeri. Il problema però non sta tanto qui, quanto nel vivere la definizione di “contropiedista” come un’offesa, sia da parte di chi la dice che da colui che la riceve. Che poi i due in questione non si piacciano non è un mistero e, quasi certamente, ha contribuito non poco ad accendere gli animi.
Tutto nasce nell’estate del 2004 quando Capello, appena passato alla Juve di Moggi, Giraudo e Bettega, decise di non rinnovare il contratto all’allora capitano bianconero, opponendosi perfino a un suo inserimento nello staff tecnico. Dieci anni dopo il secondo capitolo: Don Fabio definì il campionato italiano “poco allenante”, Antonio, che quel titolo lo aveva vinto, rispose col bazooka (“ricordo la Juve di Capello per gli scudetti revocati, non certo per il gioco; i maestri che non conoscono le cose si facessero i fatti loro”). Domenica scorsa l’ennesimo atto, destinato, probabilmente, a non restare l’ultimo. Con una sola certezza: nell’epoca dei giochisti e dei risultatisti si può dire di tutto, ma guai a parlare di contropiede…