Nel manifatturiero i prezzi degli input continuano a salire, anche se lentamente. E le imprese sembrano un po’ più in grado di trasferirne i rincari sui listini. Questo dice l’indagine PMI globale. Ma se guardiamo all’andamento dei prezzi alla produzione dell’industria, il potere di rincarare i beni si vede negli USA ma non in Cina né tantomeno nell’Eurozona.
Quindi al di là dell’Atlantico le aziende riescono meglio a difendere i margini, ma occorre considerare che devono anche fronteggiare un aumento del costo del lavoro per unità prodotta (CLUP) in accelerazione, mentre nell’Eurozona è in frenata e ancor più lo sarà nei prossimi trimestri. Almeno dal lato del numeratore.
Infatti, è difficile immaginare che i lavoratori riescano ad ottenere rinnovi contrattuali analoghi a quelli recenti con l’industria in piena recessione. Soprattutto in Germania, dove si iniziano a osservare sulla disoccupazione gli effetti dei tagli occupazionali nel manifatturiero, che stanno via via prendendo piede anche nelle altre economie dell’area.
Tagli che sono stati annunciati, più o meno drammaticamente, anche nel settore bancario, che deve ristrutturarsi per fronteggiare non solo i minori margini di intermediazione ma anche la minor necessità di personale agli sportelli, con l’ampiamento della quota di “finanza tecnologica” (operazioni via computer o telefonino).
Insomma, sul costo del lavoro si rinnoveranno le pressioni deflazionistiche e ciò manterrà bassa l’inflazione anche al consumo. Che viaggia stabilmente intorno all’1,6% nella misura preferita dalla FED mentre ci si è appena avvicinata in quella preferita dalla BCE. E come hanno detto i rispettivi presidenti, le banche centrali vogliono vedere l’inflazione nel bianco degli occhi (ossia che «l’inflazione aumenti in misura significativa e persistente») prima di prendere contromisure di politica monetaria. E ciò non è all’orizzonte delle previsioni sui prezzi al consumo di nessuna di esse per il 2020. Mentre lo è negli USA per il 2021; però, siccome «del doman non v’è certezza», figuriamoci per il dopodomani.
In Cina e altrove si fa sentire il fortissimo rialzo del prezzo della carne di maiale, dovuto all’abbattimento di centinaia di milioni di capi per fermare l’epidemia di febbre suina; con effetti simpatetici su carni succedanee. Ma non bisogna confondere temporanei spostamenti dei prezzi relativi con innalzamenti duraturi della pressione inflazionistica.
Gli incrementi delle quotazioni delle materie prime energetiche e non sono più fondamentali, perché riflettono il miglioramento dell’attività manifatturiera. Vanno presi, quindi, come una buona notizia, e non come una minaccia alla stabilità dei prezzi.