Sembrerebbe che l’inflazione si stia disibernando. In Cina l’aumento dei prezzi al consumo è salito verso il 4%. Nell’area euro il dato core è salito all’1,5%, che non si vedeva dal marzo 2013. In Usa è solidamente sopra il 2%. Ma il condizionale è d’obbligo.
Senza la febbre suina, che ha dimezzato il numero di porci e fatto più che triplicare il prezzo della relativa carne, la dinamica del costo della vita in Cina sarebbe vicina all’1% (il consumo di maiale pesa per il 2,5% nella borsa della spesa cinese).
Nell’area euro il dato appare un’anomalia, se confrontato con la dinamica dei prezzi alla produzione praticati sul mercato interno al netto dell’energia, che sono in forte decelerazione: +0,3% annuo in ottobre (-1,9% con l’energia), dall’1% di maggio; quelli degli intermedi, poi, sono in caduta (-1,0% da +0,8%). Segno che la debolezza della domanda costringe le imprese a tagliare i listini. Troppo presto per cantare vittoria sulla deflazione.
Gli USA sono il paradiso economico anche per l’andamento dei prezzi. La loro temperatura, come la minestrina di Riccioli d’oro, non è né troppo alta né troppo bassa. Agli attuali ritmi, o un po’ più giù, viaggia ormai dall’ottobre 2011, alternando raffreddamenti e riscaldamenti senza un particolare trend.
Le materie prime hanno un encefalogramma piatto. Sintomo di domanda fiacca. Ora che la Cina riparte, ci si può attendere un po’ di vivacità.
L’oro, barbara reliquia e termometro dei timori inflazionistici, è ripiegato dai massimi toccati a fine agosto inizio settembre, perdendo il 6% abbondante, ma restando su di quasi il 16% dall’avvio del 2019. Per confronto, l’indice in dollari delle borse mondiali è salito del 20%; dai massimi dell’agosto 2011 l’oro ha perso il 19% e le azioni hanno guadagnato il 90%. Parafrasando un grande poeta-cantautore: dall’oro non nasce niente, dalle azioni nascono investimenti, reddito, occupazione…