L’intervento pubblico non è la ricetta giusta per rilanciare l’economia e nemmeno per risanare le aziende. Chi parla non è un Chicago Boy ma un serissimo e ben noto economista industriale che in anni passati è stato anche vicepresidente dell’Iri, come il professor Riccardo Gallo, oggi Presidente dell’Osservatorio sulle imprese della Facoltà di Ingegneria dell’Università La Sapienza. Questo vale per l’Ilva e vale ancor di più per Alitalia, per quale gli studi di Gallo hanno dimostrato che, quand’anche gli aerei della compagnia italiana volassaero sempre pieni, il pareggio di bilancio resterebbe una chimera, per l’insostenibile struttura dei costi che zavorra l’Alitalia. Altro che nazionalizzazioni: “Basta gettare soldi pubblici in Alitalia: è già fallita due volte” sostiene con passione civile Gallo. Ma ecco l’intervista che ha rilasciato a FIRSTonline.
Professor Gallo, nell’inserto L’Economia del Corriere della Sera, Lei ha sostenuto che “l’intervento pubblico non è mai stato una soluzione, né come imprenditoria di Stato, né per la crescita dell’economia, né per risanare le gestioni aziendali, né per cercare acquirenti”. Detto da Lei, che è stato vicepresidente dell’Iri, ha il sapore di una bocciatura senza se e senza ma dell’intervento diretto dello Stato in economia: è così?
“Su L’Economia del Corriere ho svolto un’analisi di due casi aziendali precisi e sono arrivato alla conclusione di sconforto che lei ha ricordato. Sarebbe corretto essere prudenti e non generalizzare semplicisticamente. Eppure sì, è così, io non ricordo molti casi di rilancio imprenditoriale e di risanamento gestionale di società industriali a opera di un funzionario o di un pubblico ufficiale. L’esempio migliore, anzi un’eccezione, è quello da me vissuto nella Fidia Farmaceutici di Abano Terme (PD), dichiarata fallita dal Tribunale di Padova nel dicembre 1993 e riportata in bonis, attraverso un concordato fallimentare approvato dalla Corte di Appello di Venezia nel febbraio 1999, con utili interessanti a fine 1998. Credo sia stato il primo se non l’unico caso di società capogruppo commissariata e tornata in bonis negli archivi del Mise. Sarebbe interessante sviscerarne le ragioni di successo. Credo fossero molte: sotto la cenere del fallimento a fine 1993, c’era ancora una forte fiamma di impresa, un’elevata propensione alla ricerca, l’organico era mediamente giovane (intorno a 35 anni), aveva una cultura naturalmente internazionale, la produttività era alta, lo era in gran parte del Veneto, io commissario straordinario davo l’esempio di abnegazione, morigeratezza, ambizione di qualità. Ma quello ripeto è un esempio raro, anche nella mia molteplice esperienza professionale”.
Perché l’intervento dello Stato non funziona né in economia né nelle aziende?
“Soprattutto alla Fidia Farmaceutici non c’erano soldi. Vede, io credo che i miracoli economici siano possibili solo se non ci sono risorse finanziarie, un po’ come in un dopoguerra. L’intervento diretto dello Stato e la disponibilità illimitata (o almeno percepita tale) avvelena l’impresa, anzi impresa etimologicamente è il contrario di agiatezza finanziaria. Pensi all’Iri degli anni Ottanta, sotto la presidenza di Romano Prodi: pompava mediamente 5 mila miliardi di lire all’anno, le società controllate (Stet soprattutto) facevano investimenti per 11 mila miliardi di lire all’anno, secondo una filosofia di irrorazione dell’indotto, non solo e non tanto per rispondere a esigenze tecnologiche specifiche. Le perdite della siderurgia e dell’Alitalia erano già le stesse di oggi”.
Vediamo quali sarebbero le conseguenze del suo ragionamento sui due casi di crisi aziendali – Ilva e Alitalia – che dominano la scena politica ed economica. Per Ilva, il premier Conte e ArcelorMittal parlano della necessità di un nuovo piano industriale per bonificare, salvare e rilanciare l’impianto di Taranto: come dovrebbe essere il nuovo piano per funzionare?
“Non so rispondere, perché non conosco i fatti aziendali dall’interno. Ma ho fatto una simulazione del conto economico e ho trovato che ArcelorMittal quando ha accettato di acquisire l’Ilva, di assumere 10 mila dipendenti, di produrre solo fino a 6 milioni di tonnellate l’anno contro una capacità produttiva ben superiore a 10 milioni e di mantenere questo basso utilizzo degli impianti per tutto il tempo necessario a realizzare la ristrutturazione a fini ambientali, ha messo in conto una perdita operativa annua di 427 milioni di euro. Dunque uno sforzo importante, una sorta di investimento aggiuntivo a quello impiantistico, nella prospettiva di remunerarlo a regime. Ebbene, ArcelorMittal avrebbe dovuto essere rispettata dallo Stato e dall’opinione pubblica. Invece, tutti l’hanno insultata, la magistratura l’ha perseguitata. Ti credo che gli azionisti indiani abbiano pensato: ma noi ce ne andiamo dall’Italia, ma che scherziamo?”
Lei ha sostenuto più volte che l’Alitalia, per l’alto carico di spese – soprattutto per il personale – che deve sobbarcarsi, non può raggiungere il pareggio di bilancio nemmeno se i posti dei suoi aerei fossero sempre occupati al 100%. La conclusione allora quale dovrebbe essere? Se non ci sono acquirenti, sarebbe meglio far fallire e liquidare la compagnia aerea e ricollocare i lavoratori?
“Non “far fallire”, perché l’Alitalia è già fallita, due volte. Piuttosto, capire che non era risanabile e vendere gli assets (materiali e soprattutto immateriali, come slot, diritti, brevetti, marchi) nel modo migliore e più trasparente, pagare quel poco possibile i creditori e ricorrere a strumenti di sostegno temporaneo del reddito per i lavoratori espulsi dall’attività. Ormai, invece, il tempo colpevolmente perduto, i prestiti in prededuzione concessi dallo Stato e colpevolmente accettati dai commissari hanno bruciato ogni margine di soddisfacimento dei creditori. Insomma un disastro totale. Sarebbe doveroso accertare le colpe politiche, ministeriali e quelle professionali. Su queste cose che toccano i soldi pubblici io sono sempre stato intransigente”.