Di green economy, al centro delle discussioni all’ultimo vertice Onu, esistono almeno due tipi: c’è una green economy progressiva, che dovremmo prediligere, e una regressiva, che dovremmo invece contrastare.
GREEN ECONOMY PROGRESSIVA
La green economy progressiva fa leva sull’innovazione tecnologica, sull’automazione industriale, sulla rivoluzione digitale e sull’intelligenza artificiale. Punta cioè sulla scienza, sulla conoscenza e sulla formazione. Incoraggia in tutti i modi l’innovazione, non solo nell’industria e nella produzione di energia elettrica, ma anche e soprattutto nell’ agricoltura (con le biotecnologie), nel sistema dei trasporti e in quello dei servizi. Questo tipo di green economy non è un’utopia, un wishful thinking o un dover essere: è una concreta possibilità perché si basa sull’ utilizzo sinergico di uno sciame di tecnologie che già oggi esistono e che sono pienamente disponibili. Quello che dobbiamo e possiamo fare è cercare di utilizzarle al meglio al servizio dell’uomo e dell’ambiente. Si può fare!
GREEN ECONOMY REGRESSIVA
La green economy regressiva diffida invece delle tecnologie (soprattutto degli OGM e della Fusione Nucleare) e punta tutto sulla modifica degli stili di vita. La convinzione da cui muove è che a mettere in pericolo la terra siamo noi col nostro modo di vivere, di produrre e di consumare. Siamo noi che al pari di bimbi debosciati arrechiamo danni irreparabili all’ambiente e spetta dunque innanzitutto a noi porvi rimedio cambiando noi stessi, consumando di meno e magari viaggiando anche di meno (niente aerei). Che i bisogni degli uomini, non i capricci o gli sprechi ma i bisogni veri crescano in modo esponenziale con il crescere della popolazione mondiale e che, come già in passato, anche oggi la scienza e la tecnica possano (forse) aiutarci a soddisfarli, non passa neppure per la testa di questi ambientalisti.
L’unica cosa che davvero li interessa è cambiare l’Uomo. La loro ambizione è “raddrizzare”, come diceva Kant, il legno storto dell’umanità, anche a dispetto dell’uomo stesso. È una concezione punitiva e profondamente antiumana della vita. Ed è anche una concezione potenzialmente criminogena. Non è la prima volta che l’umanità è chiamata a misurarsi con simili utopie reazionarie. L’ultima volta è stato nella Cina di Mao durante la rivoluzione culturale e poi nella Cambogia dei Kmer rossi di Pol Pot, (uno che, sia detto fra parentesi, aveva studiato alla Sorbona). L’esito è stato catastrofico. Meglio non riprovarci.
LA CONTRAPPOSIZIONE FRA “DECOUPLING” E “DECRESCITA FELICE”
L’obbiettivo della green economy progressiva non può essere quello di mettere in riga l’umanità ma quello di produrre tutto ciò di cui gli uomini, tutti gli uomini, hanno davvero bisogno riducendo il più possibile il consumo di risorse naturali per unità di prodotto. Questo processo si chiama “decoupling” ed è già concretamente in atto. Ciò che dobbiamo fare è implementarlo.
L’obbiettivo della green economy regressiva è, invece, la “decrescita felice” (teoria elaborata dall’economista francese Delouze e fatta propria da Beppe Grillo) la quale altro non è che la riproposizione in chiave moderna dell’antico pregiudizio di Rousseau, il quale considerava il progresso come il vero responsabile della corruzione dell’uomo e della contaminazione della natura.
Sono due visioni contrapposte e inconciliabili del nostro futuro quelle fra le quali la politica è chiamata a scegliere, ed è una scelta che non si può eludere perché il green new deal, del quale tanto si parla, presuppone un ruolo sempre più attivo sia dello Stato che della politica.
LO SCONVOLGIMENTO DEL MERCATO DEL LAVORO
Che cosa è, infatti il green new deal se non un’accelerazione straordinaria del processo di riconversione degli apparati produttivi, dell’agricoltura e dei servizi la cui finalità è quella di ridurre il più possibile il consumo di energia e di materie prime per unità di prodotto? Questa riconversione avrà certamente effetti positivi sull’ambiente e contribuirà a ridurre in modo significativo le emissioni di CO2, ma comporterà anche uno sconvolgimento nel mercato del lavoro. Molti lavori scompariranno e saranno in molti a doversi cercare o inventare un nuovo lavoro.
Se agli investimenti privati nell’innovazione tecnologica non si accompagneranno massicci investimenti pubblici nella scuola e nella formazione continua e nelle politiche attive del lavoro sarà molto difficile favorire la mobilità da un posto di lavoro all’altro e da una professione all’altra. Cosi come, senza uno sforzo congiunto di investimenti pubblici e privati nei servizi e nelle infrastrutture materiali e immateriali, sarà difficile se non impossibile creare nuovi lavori in grado di sostituire quelli che l’automazione cancella. È questo lo specifico carattere della transizione economica nella quale siamo immersi che rende necessaria una ridefinizione del ruolo dello Stato nell’economia.
LE RISPOSTE DI USA E CINA
Gli Usa e la Cina hanno già dato o stanno cercando di dare una loro risposta, mentre manca ancora quella dell’Europa. La risposta americana è abbastanza chiara. Trump, con la guerra commerciale dei dazi e con il protezionismo, cerca di riprendere il controllo della catena mondiale dell’offerta, in particolare nei settori strategici del digitale e dell’intelligenza artificiale nei quali la Cina sta insidiando il primato americano. Ma Trump non si accontenta di questo, cerca anche di riconquistare il controllo sulla catena del valore nei settori più tradizionali come l’auto, la siderurgia, il gas. Dell’ambiente, almeno sino ad ora, non sembra preoccuparsi più di tanto. Per Trump lo Stato deve intervenire non per promuovere una riconversione produttiva ma per riaffermare il primato dell’America (America first).
Diversa è la risposta della Cina, la quale ha messo a punto una strategia di riconversione dell’apparato produttivo (Made in China 2025) che si propone di ridurre nell’arco di 10 anni il consumo di energia per unità di prodotto del 34%, di ridurre per una quota equivalente la percentuale di riciclo degli scarti industriali e l’utilizzo dell’acqua. Tutto ciò attraverso uno sforzo sinergico dello Stato e delle imprese pubbliche e private per raddoppiare nello stesso arco di tempo la quota degli investimenti in ricerca e sviluppo.
È un piano che fa leva sull’innovazione tecnologica e non sul basso costo del lavoro e che si affianca ad un piano di grandi investimenti, sia pubblici che privati, nelle infrastrutture materiali e immateriali. Questo tipo di programmazione è evidentemente reso possibile dalla particolare natura dell’economia cinese (un esempio perfetto di capitalismo monopolistico di Stato) e, anche, dal carattere paternalistico e talvolta autoritario dello Stato cinese.
IL RITARDO DELL’EUROPA
Nulla di simile esiste in Europa e mai potrà esistervi, cosi come nulla di simile agli Stati Uniti potrà, almeno nel medio periodo, prendere il posto della comunità di nazioni che è oggi l’Europa. Ma un modello Europeo di programmazione democratica dello sviluppo che orienti le nostre economie verso una riconversione produttiva ambientalmente compatibile non è impossibile. Draghi ne ha delineato la possibile struttura finanziaria capace di sostenere una politica di investimenti nelle grandi infrastrutture materiali e immateriali. Anche strategie industriali condivise sono possibili cosi come è possibile immaginare una sempre maggiore sinergia fra lo sforzo della Commissione di programmare lo sviluppo e l’autonomo sforzo produttivo delle imprese per realizzarlo.
Questo tipo di programmazione non ha nulla a che vedere col protezionismo americano o col paternalismo di stampo asiatico. Ricorda, casomai, il tentativo di Programmazione democratica fatto da Antonio Giolitti e Giorgio Ruffolo negli anni 70. Un tentativo che non riuscì, non perché non fosse valido, ma perché gli mancò il sostegno di tutte le forze riformiste e democratiche (il Pci vi si oppose frontalmente). Oggi, però, le cose potrebbero andare diversamente. Varrebbe la pena di provarci.