“Posso dire in tutta tranquillità che ho lasciato al mio successore al Ministero dell’economia, Roberto Gualtieri, una situazione dei conti pubblici relativamente tranquilla e soprattutto un clima di maggiore fiducia da parte dei mercati e delle cancellerie europee sulla volontà dell’Italia di stare nell’euro e di rispettare le regole di Bruxelles. Ed infatti a partire dalla manovra di aggiustamento del giugno scorso, lo spread ha iniziato a scendere dando un buon sostegno ai conti del Governo e del sistema bancario”.
Giovanni Tria, ex preside della Facoltà di Economia dell’Università di Tor Vergata, è stato ministro dell’Economia del governo giallo-verde per circa 15 mesi. Sfoderando una pazienza paragonabile a quella mitica di Giobbe, ed una capacità di mediazione unita ad una fermezza di fondo, è riuscito a smussare le idee più stravaganti dei due partner di governo che volevano in tutti i modi attuare le mirabolanti promesse fatte in campagna elettorale. Ha smentito con pacatezza le provocatorie dichiarazioni di alcuni esponenti leghisti che rischiavano di accentuare i timori dei mercati sulla volontà dell’Italia di rimanere nell’euro.
Solo una volta, quando l’On. Borghi ha tirato fuori l’idea del mini-Bot, ha reagito con un po’ di stizza dettando alle agenzie un secco comunicato per smentire che ci fosse da parte del governo italiano la più lontana intenzione di procedere su quella strada. “Nella nostra situazione – ha commentato l’ex ministro – e dato il debito che grava sulle nostre spalle, il nostro primo obiettivo era quello di dare segnali chiari al mercato sulla nostra capacità di tenere sotto controllo la finanza pubblica. Non si tratta tanto di ridurre il debito o il deficit di qualche decimale di punto, ma di segnalare la nostra ferma intenzione di rispettare le norme europee e rassicurare tutti sulla non esistenza del rischio di uscire dall’euro. Ed infatti tutti gli osservatori sono rimasti ben impressionati dalla manovra di aggiustamento di ben 7,6 miliardi di abbiamo fatto in primavera”.
“Pochi credevano – ha aggiunto Tria nell’intervista rilasciata a FIRSTonline – che con l’economia in stagnazione e con un governo retto da forze politiche antipatizzanti nei confronti dell’Europa, il nostro Governo volesse fare una manovra così ampia e soprattutto si impegnasse sulla tenuta dei conti per il 2020. Lì quindi c’è stata la svolta e si è avviato un cauto ritorno della fiducia degli investitori nei nostri confronti. Io peraltro ho sempre affermato che non ci si poteva indebitare per fare spesa corrente, ma casomai solo per stimolare gli investimenti. Ho detto, in maniera un po’ provocatoria, che una famiglia non dovrebbe indebitarsi per pagare l’affitto, ma potrebbe fare un mutuo per comprare una casa”.
Ministro, ora la sfida del nuovo governo è quella di mantenere questa fiducia e quindi di far continuare la discesa dello spread. Bisogna dire che la sola uscita di Salvini dal governo è stata salutata dai mercati con una buona discesa dello spread e in maniera positiva dai governi degli altri paesi europei. Per consolidare questo clima di favore, occorre una manovra di finanza pubblica per il prossimo anno capace di mantenere gli impegni presi ufficialmente dal Conte 1 e che sia in grado di sostenere una ripresa della crescita ferma a meno dello 0,5%, senza la quale sarà comunque difficile mantenere un equilibrio non solo economico ma anche sociale nel nostro Paese.
“Noi al ministero dell’Economia in luglio, prima della caduta del governo, avevamo fatto una serie di ipotesi per impostare una manovra 2020 senza lacrime e sangue. In primo luogo e basandosi sulle stime che si potevano fare allora, risultava che il miglior andamento delle entrate (per la fatturazione elettronica che io ho voluto introdurre rifiutando qualsiasi ulteriore proroga), e le minori spese per Reddito di cittadinanza e Quota 100 portava il fabbisogno 2020 intorno all’1,6% attuando ovviamente le clausole di salvaguardia. Nel caso si volessero sterilizzare gli aumenti dell’IVA e delle accise previsti in oltre 23 miliardi, come sostengono tutti i partiti, sarebbe stato necessario reperire circa 15 miliardi. Ricordo, solo per evitare interessati vuoti di memoria, che ben 19 miliardi dei 23 delle clausole di salvaguardia, li avevamo ereditati dal precedente governo Gentiloni.
Avevamo anche studiato nel dettaglio la possibilità di operare tagli di spesa per 6 miliardi ripartiti su un largo numero di voci e soprattutto riferiti non alla spesa storica ma agli incrementi tendenziali previsti. In questo modo non si sarebbero creati problemi ai cittadini dato che ogni ritocco sarebbe stato molto contenuto. Altri 6 miliardi sarebbero potuti venire dalla revisione delle così dette tax expenditure. Anche in questo caso si trattava di ritoccare molte voci per importi molto contenuti. Infine 3 miliardi sarebbero potuti venire dalla lotta all’evasione calcolata non in maniera generica, ma derivante con precisione e credibilità da ritocchi legislativi individuati. A questo punto, disinnescate le clausole di salvaguardia, sarebbe stata mia intenzione proporre una qualche rimodulazione dell’IVA, specie per le aliquote agevolate, che avrebbe potuto dare un gettito di circa 8 miliardi da impiegare nella riduzione delle tasse sulle persone.
Avevamo anche immaginato un nuovo sistema per disegnare una curva Irpef continua, che come avviene in Germania presenta numerosi vantaggi non solo di trasparenza ma anche per permettere di mirare adeguatamente le fasce di reddito alle quali si vuole dare priorità nel processo di riduzione fiscale. In questo modo la finanza pubblica contenendo il deficit intorno al 2%, avrebbe tranquillizzato il mercato e avrebbe potuto dare una spinta alla crescita. Non dimentichiamo infatti che un moderato aumento dell’IVA, oltre ad essere raccomandato dalla UE, non avrebbe effetti inflazionistici, mentre la riduzione delle tasse sul lavoro potrebbe davvero dare nuovo slancio ai consumi. Ricordo, per i futuri storici, che già lo scorso anno avevo proposto una graduale riduzione dell’Irpef, affermando però che questa era in alternativa con quota 100. Fu Salvini a scegliere le pensioni piuttosto che la diminuzione delle tasse per motivi, credo, di propaganda elettorale ma con effetti nulli, se non negativi sulla crescita del PIL”.
Ma in questo budget non ci sarebbe nuovo spazio per gli investimenti pubblici.
“Si parla, spesso a sproposito, di flessibilità da richiedere a Bruxelles. Ma per l’Italia il problema vero è che gli investimenti non si riescono a fare non per mancanza di fondi ma per problemi burocratici. Per il codice degli appalti, per l’incapacità di progettare da parte del settore pubblico. A questo proposito ci tengo a ricordare che a primavera il Parlamento ha approvato una legge da me proposta per l’istituzione di una centrale di progettazione inserita nell’ufficio del Demanio e quindi controllata dal Mef, dotata di un finanziamento di 100 milioni annui, ed alla quale gli enti locali avrebbero potuto accedere senza gara, e quindi in maniera snella e rapida.
Si tratta ora di assumere i professionisti giusti e di metterla in condizione di lavorare. Poco utili invece si sono dimostrate le cabine di regia istituite a Palazzo Chigi che non hanno cavato un ragno dal buco. Anche per il Mezzogiorno, dove esiste un confuso coacervo di norme di agevolazione spesso non utilizzate, stavamo mettendo a punto una mappa delle opere in corso o da avviare per poter intervenire con cognizione di causa. Spero che ora il nuovo governo voglia proseguire su questa strada”.
Ma nell’ultimo anno c’è stata anche una brusca frenata degli investimenti privati a causa dell’incertezza e dell’aumento dei tassi d’interesse.
“Nei mesi scorsi ho avuto modo di incontrare molti operatori ed esponenti dei governi dei nostri partner europei. Tutti hanno sottolineato che il principale freno agli investimenti privati esteri in Italia è il rischio legale. Questo a sua volta ha tre componenti: la lentezza della magistratura che non consente di valutare i tempi di una causa, soprattutto l’imprevedibilità delle sentenze, ed infine la facilità con cui nel nostro ordinamento si può passare dal civile al penale”.
Infine le privatizzazioni. Vi eravate impegnati a fare quest’anno ben 18 miliardi di privatizzazioni. Forse era una cifra poco credibile fin da quando era stata messa nel dicembre scorso per chiudere la partita della finanziaria con Bruxelles. Sta di fatto che fino ad agosto non era stato fatto nulla.
“Noi al Mef avevamo fatto un piano che prevedeva privatizzazioni per circa 9 miliardi. Poi le vicende elettorali e quelle politiche hanno fatto slittare qualsiasi decisione. E si trattava di privatizzazioni vere, non di passaggi di azioni dal Tesoro a Cdp. Ad esempio si stava lavorando per mettere sul mercato una quota dell’Alta Velocità che opera in regime di concorrenza e non gode di contributi pubblici come invece le FS. Ma anche in questo caso voglio chiarire che se pur si trattava di una cifra inferiore a quella prevista, tuttavia il segnale che avremmo lanciato ai mercati sarebbe stato molto forte. Si confermava con gesti concreti, la volontà italiana di avviarsi su una strada di graduale riduzione del debito e si fugavano i residui dubbi sulla nostra volontà di stare nell’euro. Ricordo che una parte rilevante del nostro spread non era legato ai fondamentali economici e finanziari, ma al rischio di colpi di testa da parte dell’Italia di voler provocare in qualche modo una Italexit”.
Nel corso di questi mesi ha frequentato molto i palazzi europei. Che idea s’è fatto della situazione di Bruxelles e cosa si dovrebbe fare per un rilancio effettivo dell’Unione?
“In sintesi l’impressione che ho avuto nel giugno dello scorso anno era che la UE aveva imboccato la strada della disgregazione a causa di paesi del Nord che si opponevano a qualsiasi proposta proveniente da Francia, Germania e Spagna sempre appoggiati da noi, di andare avanti sulla strada dell’integrazione. La Germania non controllava l’Europa e veniva scavalcata dai paesi del Nord che tenevano un atteggiamento da veri sovranisti. Basti pensare alla concorrenza che fanno sul piano delle aliquote fiscali! In più fino allo scorso anno tutti erano convinti che il pericolo sarebbe potuto venire dall’insorgere di una nuova crisi finanziaria. Io e altri sostenevamo invece che il rischio stava nella possibilità dell’arrivo di una crisi economica che, solo in secondo tempo si sarebbe potuta trasferire al sistema finanziario.
Mi sembra che questa idea abbia fatto strada. Ora si capisce che la politica monetaria, da sola, non basta a sostenere il tono dell’economia e che ci vogliono anche politiche fiscali, come del resto ripete con forza lo stesso Mario Draghi. A questo punto è chiaro che ci serve una politica fiscale espansiva fatta da una autorità europea capace di finanziarsi autonomamente e che possa stimolare gli investimenti anche in Paesi, come l’Italia, che dato l’alto debito non potrebbero da soli allargare le maglie del bilancio pubblico”.
La politica monetaria ha comunque svolto un ruolo rilevante per stabilizzare l’euro. Tuttavia la grande liquidità immessa sul mercato non è andata a finanziare gli investimenti. Peraltro i tassi bassi o addirittura negativi, stanno creando problemi in molti paesi dove i fondi pensione non riescono più a fare fronte ai loro impegni. Si può andare avanti così oppure bisognerà trovare nuove modalità operative?
“I tassi così bassi, che certo hanno avuto un effetto importante nel tenere in vita l’euro, tuttavia comprimono la remunerazione del risparmio che era una quota importante del reddito complessivo dei cittadini. Per questa via il denaro a buon mercato invece di avere un effetto espansivo, induce ad una riduzione dei consumi e quindi provoca una stagnazione della domanda e dell’economia che soffre anche per una inflazione troppo vicina allo zero. Se la liquidità creata dalla banca centrale non arriva all’economia allora occorre ripensare ad una mia vecchia proposta che è quella di finanziare direttamente gli investimenti pubblici con mezzi monetari.
E cioè l’Europa dovrebbe creare un meccanismo attraverso cui promuovere una serie di opere pubbliche finanziate con titoli acquistati direttamente dalla banca centrale. Certo in questo modo si creerebbe liquidità come peraltro avviene con il QE, ma la differenza sta nel fatto che in questo caso si finanzierebbero direttamente degli investimenti mentre nella situazione attuale molta liquidità creata rimane inerte, oppure finanzia speculazioni in giro per il mondo”.