Un titolo palesemente provocatorio quello scelto da Alessandro Aleotti per il suo saggio L’illusione del cambiamento. L’Italia di oggi, l’Italia di domani, edito da Bocconi Editore. Voluto proprio per attirare l’attenzione su un tema solo in apparenza molto discusso nel dibattito politico e culturale. Per sottolineare come il termine cambiamento sia oggi «utilizzato con estrema superficialità», dimenticando che, «nel discorso pubblico, il cambiamento appartiene alla complessità dei processi sociali e non alla semplicità del variare dei gusti, delle mode o delle opinioni personali».
La principale sfida che pone il «cambiamento generato dalle trasformazioni economiche e sociali» è quella che, individualmente e collettivamente, «ci deve vedere impegnati nello sforzo di sottrarsi alle egemonie retoriche» le quali, «in nome di una dogmatica apologia del cambiamento, uniformano i pensieri e i comportamenti».
Se è per certo vero che il cambiamento rappresenta «la cifra identificativa della contemporaneità», ciò che per Aleotti permane illusorio è l’idea che le sue forme ci inglobino e, in questo modo, «ci sollevino dall’onere e dalla responsabilità di osservarle e capirle». L’obiettivo a cui richiama il provocatorio titolo del libro è quello di «rafforzare nel lettore un punto di vista personale» che non deleghi le scelte che competono alla «sua capacità cognitiva e spirituale». Rincorrere semplicemente «la velocità del cambiamento», senza soffermarsi in analisi e riflessioni critiche, porta a «esaurire le energie fisiche e instupidire quelle mentali». Necessita invece l’utilizzo, sia sul piano individuale che collettivo, «di un paradigma comportamentale diverso da quello delle narrazioni prevalenti».
Un libro, L’illusione del cambiamento di Alessandro Aleotti, provocatorio nel titolo ma senz’altro molto riflessivo e metodico nel suo contenuto.
Quella in cui viviamo è l’era definita della globalizzazione, una rivoluzione che Aleotti definisce della «mobilità». Un processo che se ha generato «indiscutibili elementi di emancipazione individuale e collettiva», ha contemporaneamente condotto a «una progressiva dissoluzione delle struttura intermedie», a cominciare dagli Stati-nazione, che tradizionalmente «garantivano quadri identitari e forme di protezione agli individui». Conseguenza diretta sono le tensioni cui la condizione umana viene di continuo sottoposta. Due le possibili alternative per l’autore:
- Accettazione di forme di adattamento che, retoricamente protette dalle miracolistiche del cambiamento, rischiano di condurre a un disorientamento individuale e a un’alienazione collettiva.
- Assunzione di responsabilità di un “progetto umano” che non deleghi alcuna soluzione al cambiamento, ma sia in grado di affrontarlo e renderlo funzionale alla condizione esistenziale, ovvero sia capace di dominarlo.
Aleotti protende decisamente per la seconda alternativa.
Il cambiamento è, contemporaneamente, «la struttura del presente, ma anche lo strumento attraverso cui il presente si esprime». L’idea di poter inseguire il cambiamento «adeguando lo sforzo umano alla sua velocità, risulta ben presto velleitaria». Quello che necessita è, quindi, «un approccio strumentale che vede il cambiamento come un ostacolo da superare e non come un fine a cui tendere».
È evidente come la parte preponderante di ciò che consideriamo «cambiamento» nella società contemporanea «derivi dalla Tecnica, cioè dall’implementazione tecnologica ed economica delle innovazioni cognitive» che provengono da scienze considerate esatte come la matematica, la fisica e la cibernetica. I beni prodotti dalla Tecnica divengono un «fine un sé» e «ogni sistema cerca di accaparrarsene la maggior quota possibile», non solo per soddisfare i propri bisogni, ma «soprattutto per stabilire un’egemonia sui soggetti con cui compete».
La tendenza della Tecnica, quindi, mette all’ordine del giorno «il rischio reale che l’uomo ne sia travolto e inglobato». Se ciò non accade è perché, in ultima analisi, «resta un elemento prodotto dallo sforzo umano e, come tale, attribuisce all’uomo ogni responsabilità in termini di dominio e sottomissione». Quindi se è vero che la Tecnica («cioè la forma principale da cui origina il cambiamento») perde la sua «natura strumentale per diventare uno scopo», è altrettanto vero che l’uomo («sia individualmente che come parte di un progetto umano») resta sempre «in grado di decidere di non farne il proprio obiettivo esistenziale».
Analizzando le metamorfosi della Tecnica «da mezzo a scopo» sul «fronte più evidente dell’economia contemporanea», ovvero «la finanziarizzazione», si può vedere con chiarezza come «l’abnorme crescita delle attività finanziarie derivi da paradigmi della Tecnica che danno vita a prodotti – come i derivati – generati da complesse formule algoritmiche». Nessuna forma di scarsità viene debellata dalla gigantesca crescita della ricchezza finanziaria, «confermando la natura non più strumentale del capitale finanziario generata dalla Tecnica».
Sottoposto alla «frusta» di mercati finanziari pienamente inseriti nella società della Tecnica, «lo storico capitalismo industriale riesce a mantenere il proprio tasso di profitto solo a costo di forti riduzioni di manodopera e di spregiudicate strategie disruptive», come la war economy, l’obsolescenza programmata, il sovraconsumo generato dall’economia dei brand e via discorrendo.
L’evoluzione del capitalismo occidentale, «posto che la produzione di beni tradizionali si è spostata sull’asse indo-cinese», prenderà corpo attraverso la produzione di ancora sconosciuti beni e servizi, «di cui la Silicon Valley rappresenta il modello embrionale».
Questo nuovo «capitalismo dell’innovazione» non si porrà più l’obiettivo dell’integrazione lavorativa e sociale della totalità degli individui, ma solo quello di una «crescita trascinata dalle continue accelerazioni della società della Tecnica». In questo scenario evolutivo, ciò che si troverà «sotto» e «sopra» il corpo sociale rappresentato da coloro che lavorano all’interno dell’economia capitalistica «non sarà più una patologia, bensì una parte fisiologica del sistema».
L’impossibilità di scegliere «la via facile della mercatizzazione dei bisogni primari» obbligherà il capitalismo a ricercare sempre più «in avanti» gli spazi da far divenire «economia» e, contemporaneamente, «lo costringerà a ritirarsi da altri fondamentali common goods sociali» come la salute, l’abitazione e il primo accesso al credito.
Attraverso una simile dinamica si genereranno, per Aleotti, le condizioni necessarie a far sì che una fascia significativa di popolazione esca definitivamente dallo «scenario lavorista». Le economie saranno «libere di competere» senza preoccuparsi dei livelli occupazionali e i bisogni primari verranno «garantiti da strutture della Tecnica non assimilabili allo Stato o al sistema capitalistico».
I mercati finanziari assumeranno una funzione di «casa da gioco globale», la cui legittimazione non deriverà più dalla gestione ordinaria dei debiti pubblici e dei risparmi privati, bensì da «globali volontà di potenza che muoveranno le masse monetarie verso la creazione di nuove superfici abitabili del capitalismo», siano esse avventure spaziali, perforazioni terrestri, recupero di terre desertiche o di fondali marini.
Oggi, dunque, conclude Alessandro Aleotti, «la pressione mediatica e la potenza tecnologica» ci pongono di fronte «suggestioni quasi irresistibili». A ogni suggestione, tuttavia, «corrisponde sempre un sacrificio». Perciò, rimanere fedeli a se stessi, «attraverso un agire disincantato», resta la più feconda e consigliabile delle esperienze, anche perché «non vi è alcuna contropartita che superi la vita stessa e la soddisfazione del capire».