L’accesso all’acqua in Africa, e in tutte le parti del mondo dove esiste questa emergenza che causa ogni anno la morte di oltre 840 mila persone costrette a bere e lavarsi con acqua sporca o contaminata, potrebbe essere facilitato grazie all’iniziativa di un italiano, Mauro Gazzelli, che insieme alla moglie Shairin Sihabdeen ha fondato in Svizzera la startup GratzUp. La startup ha messo a punto una tecnologia avanzata, innovativa e sostenibile che verrà sperimentata quest’anno per la prima volta in Rwanda e che garantirà un accesso all’acqua sicura agli alunni di una scuola e ai pazienti di un ospedale, circa 1.000 persone in tutto, grazie ad un accordo col governo rwandese.
L’impianto, chiamato G Plant, è completamente autonomo e non ha bisogno né di filtri né tantomeno di sostanze chimiche: per sterilizzare l’acqua gli basta utilizzare una fonte di energia pulita e rinnovabile, l’energia solare. L’iniziativa è stata presentata a Milano e nel corso del 2019 sarà un team di biologi dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza a monitorare i risultati del test pilota in programma, al termine del quale, in caso di successo, è già pronto un piano di installazione su larga scala per il continente africano e non solo (Tanzania, Etiopia, Egitto e Indonesia sarebbero i primi Paesi a beneficiarne). La tecnologia di GratzUp inoltre consente di raggiungere non solo una totale sterilizzazione dell’acqua, ma anche una totale sterilizzazione dei suoi contenitori, gli innovativi “G Bottle” e “G Tank” – firmati dal designer italiano Giulio Iacchetti – e di qualunque oggetto in essi contenuto.
“Abbiamo lavorato sodo – ha commentato il fondatore di GratzUp Mauro Gazzelli – per inseguire quello che all’inizio sembrava un obiettivo a dir poco velleitario e grazie al sostegno dei nostri investitori oggi possiamo affermare di essere molto vicini al nostro obiettivo iniziale: offrire una soluzione concreta che potesse garantire un accesso semplice ed immediato all’acqua sicura ovunque al mondo ve ne fosse necessità”.
“Capita raramente la possibilità – ha aggiunto l’industrial designer Giulio Iacchetti – di progettare qualcosa che concretamente possa essere uno strumento di sopravvivenza, è chiaro che in questi casi, l’adesione al progetto sfugge dai confini di una normale richiesta professionale, per lambire i territori del nostro senso del vivere e di solidarietà verso i nostri simili”.