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Risparmio, fondi comuni o Etf? Fine del braccio di ferro

L’industria del risparmio gestito è in cerca di un nuovo equilibrio, per il quale le performance, i costi e le asimmetrie informative possono fare la differenza: ecco cosa dice l’analisi di Morningstar.

Risparmio, fondi comuni o Etf? Fine del braccio di ferro

Gestione attiva o gestione passiva? Sull’eterno dibattito è intervenuta una analisi del sito Morningstar, che cita innanzitutto un dato: il basso tasso di successo delle strategie attive, tanto in Europa, quanto negli Stati Uniti, soprattutto su orizzonti temporali lunghi. Si stima che in dieci anni, solo il 34% dei gestori sia riuscito a battere l’indice di riferimento in media ogni anno. Ma da lì a definire la gestione attiva “morta”, ce ne passa. Morningstar stima infatti un patrimonio complessivo degli Exchange traded fund (Etf) a livello globale di oltre 7 mila miliardi di dollari (al 30 novembre 2018). Tuttavia, la gestione passiva rappresenta una fetta ancora minoritaria degli asset dell’industria del risparmio mondiale, circa il 27% a fine 2017 (il 16% in Europa).

Insomma, le strategie attive occupano ancora la parte più grande del mercato e una situazione di equilibrio è ancora lontana. E secondo Morningstar è stata proprio la difficoltà dei gestori attivi a battere il benchmark a contribuire allo spostamento di flussi di capitali verso gli strumenti passivi e ad alimentare il dibattito in termini di contrapposizione delle strategie. Ma ora il paradigma sta cambiando: tra fondi attivi e fondi passivi non c’è più il braccio di ferro ma anzi prove di amicizia: per Marlene Hassine Konqui, responsabile della Etf Research di Lyxor asset management, i fondi passivi, in particolare quelli a beta strategico (comunemente detti smart beta) “costringono gli active manager a concentrarsi sul loro vero lavoro, che è quello di generare alfa per continuare ad attrarre investimenti”.

Un altro fattore che contribuisce a cambiare i termini della questione da una contrapposizione fra strategie alla complementarietà è quello dei costi, il cui contenimento è diventato una priorità per i gestori di portafogli dopo l’entrata in vigore a gennaio 2018 della direttiva comunitaria Mifid II. L’idea di base è quella di pagare il giusto per quel che si ottiene. In quest’ottica, ci saranno sempre investitori disposti a sostenere commissioni alte per un fondo che realmente genera valore rispetto all’indice. A rischio di estinzione, quindi, non è la gestione attiva, ma i cosiddetti closet tracker, che combinano strategie sostanzialmente indicizzate ed elevate fee.

La prova che gli active manager hanno ancora una lunga vita davanti a loro viene dagli Stati Uniti, il mercato dove gli indicizzati hanno raggiunto il 37% delle masse totali (dati a fine 2017). Il Market Observer di Morningstar del terzo trimestre 2018, mostra che sette su dieci delle più grandi famiglie di fondi hanno il focus sulla gestione attiva. Più che scomparire dunque, la gestione attiva si trasformerà. In parte, il cambiamento è già in atto come testimoniano i sempre più numerosi casi di integrazione di strumenti indicizzati in portafogli attivi e di replicanti che usano tecniche active.

Per approfondire, consulta Morningstar.

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