Ho lavorato diversi anni a fianco di Marchionne, dall’ inizio della sua avventura in Fiat nel 2004 fino alla svolta americana con l’ acquisto di Chrysler. Ero amministratore delegato de La Stampa, e lui, che conosceva poco l’Italia, mi aveva chiamato come direttore degli affari istituzionali e in tale veste partecipavo al Board dei direttori, il comitato dove sedevano i massimi vertici del gruppo e dove si prendevano tutte le decisioni strategiche sugli investimenti e le politiche commerciali e finanziarie.
Non era facile stare vicino a Marchionne. Lui aveva la capacità e la volontà di sparigliare le carte, di innovare in primo luogo la cultura e quindi il modo di pensare dei dirigenti e dell’ azienda intera. All’ inizio molti della vecchia scuola della Torino sabauda lo ritenevano un Marziano. Quando in piena assemblea degli industriali di Torino disse che se la Fiat andava male non era per colpa degli operai e del costo del lavoro, suscitò un bel po’ di sconcerto tra gli imprenditori. Quelle parole gli valsero l’ apprezzamento dell’ allora presidente della Camera e capo di Rifondazione Comunista , Fausto Bertinotti, che lo volle incontrare. Ma quando lo accompagnai a Montecitorio mi sembrò che, al di là della reciproca simpatia umana, i due non si capirono nel profondo. Il vero rivoluzionario era Marchionne che proponeva una strada innovativa per l’industria e la società italiane, mentre Bertinotti sembrava ancorato agli stereotipi del passato.
La trattativa con GM fu un capolavoro. Riuscì a farsi dare due miliardi di dollari per liberare la GM dall’ obbligo di comprare la Fiat. Marchionne aveva fatto studi umanistici e più volte mi disse che il suo massimo impegno stava nel cercare di capire gli uomini. E questo è fondamentale, sia quando si deve assumere un collaboratore a cui affidare responsabilità, sia quando in una trattativa si deve comprendere la vera natura dell’ interlocutore con cui si deve arrivare ad un accordo, al di là della barriera dei tecnici e degli avvocati.
Conosceva bene la finanza internazionale ma non era un finanziere. Anzi, amava la tecnologia e curava personalmente il marketing. Dormiva poco e passava le notti a scrivere da solo i suoi interventi, guardare le TV di tutto il mondo o leggere libri di filosofia e di letteratura.
La presentazione della nuova 500 fu spettacolare e segnò il rilancio dell’intera economia italiana che solo da allora (eravamo nel 2005) riuscì a riassorbire il trauma dell’ultima svalutazione. La 500 fu anche l’emblema di cosa voleva essere la nuova Fiat: non un colosso di potere, ma un’azienda capace di considerare la concorrenza come un valore, innovativa, giovane, alla moda.
Il rinnovamento delle fabbriche fu una occasione di scontro che scoppiò quasi per caso, e certamente non per una sua scelta esplicita. Lui andava orgoglioso delle innovazioni logistiche che aveva apportato alle fabbriche curando la qualità della vita degli operai. Si era arrivati ad un investimento di 100 milioni di euro su Pomigliano solo per riqualificare gli operai e per portare quelle innovazioni capaci di farli lavorare meglio. Ma quando chiese la necessaria produttività eliminando gli abusi (assenteismo, scioperi selvaggi ecc.) si trovò di fronte il muro ideologico di Landini, nuovo segretario Fiom, che ingaggiò contro la Fiat la solita battaglia basata sull’antagonismo tra operaio e padrone.
Invece, secondo Marchionne, il rapporto avrebbe dovuto basarsi su una corretta collaborazione perché in effetti le sorti dei due contendenti erano strettamente legate. Ma Marchionne non si spaventò di fronte al coro di politici e giornalisti che si schierarono a difesa del “diritti” dei lavoratori. Perfino la Confindustria si disse contraria al braccio di ferro e negò il proprio appoggio in nome di un presunto realismo nei rapporti sindacali.
Ma i veri innovatori sono quelli che sbaragliano i luoghi comuni ed iniziano una nuova era. Ed infatti Marchionne uscì da Confindustria e ruppe tutti i legami con quel sistema di relazioni su cui si reggeva la stabilità delle grandi aziende italiane. Uscì dall’azionariato di Mediobanca, volle passare alla Exor La Stampa, guardò con favore l’uscita dall’ azionariato del Corriere della Sera. Volle anche rompere i legami con la politica italiana basati su qualcosa che potremmo chiamare “partenariato conflittuale”, che lui giudicava un vincolo inutile ed improduttivo. Infatti rifiutò qualsiasi proroga della rottamazione che nel 2007 e 2008 aveva giovato molto al rilancio dell’ azienda e dell’ intera economia italiana.
E proprio nel momento in cui la crisi, partita dagli Usa, si abbatteva con violenza sul mercato Italiano con crolli delle vendite di quasi il 50% per le auto e fino al 90% per le macchine industriali, Marchionne capì che quella crisi non poteva essere affrontata con la solita richiesta di sostegni allo Stato, ma doveva essere colta come opportunità per ricollocare la Fiat sul mercato mondiale cambiando proprio la sua struttura e la sua filosofia. Non solo fu colta l’ occasione di fondersi con Chrysler, ma fu data autonomia ai singoli business in modo che ognuno potesse correre con le proprie gambe. Fu separata così CNH, poi Ferrari, e ora dovrebbe essere la volta di Magneti Marelli.
Qualcuno sostiene, ad esempio l’ economista Berta, che Marchionne abbia deciso di frenare gli investimenti per rispettare l’impegno ad azzerare i debiti. Tutti spingono le aziende ad aumentare gli investimenti. Ma io ricordo la lezione del vecchio Lucchini, quando era presidente di Confindustria, il quale ripeteva sempre che il miglior modo per fare fallire un’azienda (dopo le donne ed il gioco) era quello di fare troppi investimenti in anticipo sulle tendenze del mercato. Per un po’ Marchionne è stato a guardare senza buttarsi sull’elettrico o sull’ibrido. Ora aveva deciso, come annunciato lo scorso giugno nel nuovo piano industriale, presentato a Balocco, per l’abbandono del diesel e per una nuova gamma di motori a benzina. Ai suoi successori spetterà il compito di portare avanti il piano. E vedremo se ancora una volta Marchionne avrà visto giusto sulla evoluzione del mercato e sulle tempistiche.
Lui parlava sempre della squadra. Noi del Board facevamo delle lunghissime riunioni che duravano tutto il week end. E però di fatto era un terribile accentratore. Voleva essere sempre informato di tutto, anche dei più piccoli dettagli. Lavorare con lui non era facile, ma sicuramente era entusiasmante. Ora la squadra dovrà mettersi alla prova. E si potrà vedere se il suo famoso intuito come conoscitore di uomini avrà fatto goal ancora una volta.