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Incitamento all’odio: la lezione di Capitini, il Gandhi italiano

Aldo Capitini è un gigante del pensiero e dell’azione del Novecento non solo italiano, anche se ancora non ha ancora avuto il posto che merita. Filosofo, poeta, politico e pedagogista è stato uno dei primi attivisti a introdurre nella cultura politica occidentale il principio della nonviolenza.

Incitamento all’odio: la lezione di Capitini, il Gandhi italiano

La mia nascita è quando dico un “tu” 

Solo in Italia, ogni giorno, raggiungono il web 7mila post che hanno un contenuto classificabile come incitamento all’odio, discriminatorio o violento. A dircelo è un’indagine condotta nel 2017 dall’Unar (Ufficio nazionale, antidiscriminazione razziale). L’Unar, tra le varie attività, ha preso l’iniziativa di monitorare la rete per individuare contenuti palesemente discriminatori transitati essenzialmente sui social media. 

Non è certo una novità che ce sia tanto hate speech in giro! Quello che, però, stupisce è la ricorsività del fenomeno. Non si tratta quindi di qualcosa da porre in relazione ad eventi particolari dello scenario nazionale o internazionale, come atti di terrorismo o picchi nell’arrivo dei migranti, ma è un fiume di parole violente a portata costante che scorre sulla rete da un giorno all’altro. Questo grafico sotto dà ragione dei più importanti target dell’hate speech in Italia. 

Quanto siamo lontani dal “tu” di Capitini come un piccolo ma immenso atto inclusivo di una persona nel proprio universo? Sideralmente! Sono trascorsi cinquanta anni dalla scomparsa di Aldo Capitini, avvenuta nel 1968, e nessuno sembra averne preso saldamente l’eredità in un momento di cambiamento epocale della società. Resta però la sua lezione nonviolenta ricca di spunti e di esempi. Così Goffredo Fofi la richiama: 

La nonviolenza è rimasta abbastanza marginale nel quadro italiano e direi anche perché i nonviolenti non sono stati abbastanza presenti: ottime persone, straordinarie, tra le migliori che conosco ma un po’ incerti nell’agire all’interno della realtà. Gandhi e di converso Capitini dicevano che la parola nonviolenza è una parola attiva. Capitini la scriveva sempre tutto attaccato e detestava la lineetta di separazione tra non e violenza. Perché nell’originale indiano non è una negazione ma una affermazione. Una parola che rifiutava il male — “non collaborare con il male” — prevedeva anche la disubbidienza civile e contemplava anche la “non menzogna”… 

L’uno-tutti 

Aldo Capitini è un gigante del pensiero e dell’azione del Novecento non solo italiano, anche se ancora non ha ancora avuto il posto che merita. Filosofo, poeta, politico e pedagogista è stato uno dei primi attivisti a introdurre nella cultura politica occidentale il principio della nonviolenza. E lo ha fatto in modo unico e originale unendo la tradizione liberaldemocratica (la stessa di Bobbio) con il pensiero religioso conciliare a cui attingeva anche don Lorenzo Milani, a cui il pensatore perugino guardava con infinita ammirazione. 

Nel saggio filosofico del 1947 sul soggetto della storia, oggi ripubblicato in una antologia di scritti di Capitini dal titolo Teoria e pratica della nonviolenza. La grande rivoluzione dell’inclusione per il tempo dell’istigazione all’odio, risulta chiaro come per Capitini il soggetto della storia non sia l’uomo in generale, ma l’uomo particolare, la persona, il “tu” che opera nella continua tensione di apertura agli altri, a tutti gli altri: “il soggetto è l’Uno-tutti, l’infinita coralità della presenza di tutti”, scrive in un passo del saggio. 

In un altro scritto del 1956. Rivoluzione aperta, ispirato dall’azione di Danilo Dolci a Partinico — sempre incluso nella raccolta sopracitata — , scrive a proposito della nonviolenza: 

La nostra rivoluzione è totale, perché vuole una totale liberazione di ogni angolo e aspetto e struttura della realtà e della società dal dolore, dalla morte, dal male morale e sociale; la nostra rivoluzione è corale, perché la facciamo in nome non di un gruppo, ma di tutti, e avendo tutti nel nostro intimo (come parenti, come compagni) anche quelli che ci stanno contro (ma possono cambiare), ed anche i morti, che sono uniti a noi e ci aiutano; la rivoluzione che vogliamo è aperta, perché fa e tenta tutte le trasformazioni che vede e può, ma, sapendo che non ha le forze per liberare totalmente dal dolore, dalla morte, dal male morale e sociale, ha la speranza e l’apertura, che se noi cominciamo bene, con mezzi eguali al fine e puri come il fine, il resto ci sarà aggiunto dal futuro, dalla storia, da Dio. Noi diamo la nostra buona fede, amorevolezza e apertura; e il futuro, la storia, Dio, aggiungeranno il completamento totale della liberazione: ci troveremo in una realtà liberata. 

Difficile leggere oggi queste parole. Peccato! 

Riproduciamo qui di seguito un stralcio della introduzione di Mao Valpiana, Presidente del Movimento Nonviolento, al citato volume Aldo Capitini, Teoria e pratica della nonviolenza. La grande rivoluzione dell’inclusione per il tempo dell’istigazione all’odioBuona lettura! E soprattutto, passate al “tu”. 

La semina di Capitini 

Aldo Capitini muore il 19 ottobre del 1968. Cinquant’anni fa. È l’anno spartiacque, l’anno del cambiamento, dopo il ’68 niente sarà più come prima. I giovani irrompono sulla scena mondiale, come protagonisti ed artefici di una rivoluzione culturale. In Italia, seppure i prodromi dell’anno precedente, con don Lorenzo Milani (Lettera ad una professoressa), l’enciclica di Paolo VI (Populorum progressio) e Pier Paolo Pasolini (Uccellacci e uccellini), avessero una radice nonviolenta, il movimento studentesco e quello operaio misero in campo una stagione di lotte basate su presupposti ideologici marxisti. 

Gli scontri sociali furono aspri e la nonviolenza venne lasciata da parte, dimenticata, quando non derisa o considerata merce “borghese”. Solo un drappello di giovani obiettori, cattolici e nonviolenti, rinchiusi in carcere perchè obiettori di coscienza al servizio militare, tenne vivo il riferimento alla nonviolenza, che proprio Capitini aveva seminato e coltivato costruendone una sistema di pensiero e di azione, facendo conoscere ed ispirandosi alle figure di Gandhi e Martin Luther King, ed elaborando una via italiana alla nonviolenza. 

Infatti, se ancor oggi la nonviolenza ha cittadinanza politica anche in Italia, lo dobbiamo proprio al pensiero e all’azione di Aldo Capitini (1899–1968), filosofo e fondatore del Movimento Nonviolento. 

La resistenza passiva al fascismo 

Già negli anni trenta l’antifascista Aldo Capitini scopre la dimensione politica di Gandhi e intravede nella non-collaborazione la forza capace di sconfiggere l’oppressione del regime e la via della resistenza nonviolenta all’ormai prossimo conflitto mondiale. Capitini studia l’esperienza del Mahatma e introduce nel dibattito etico-politico il discorso sui mezzi e fini, concentrandosi soprattutto sul “metodo” per portare avanti la lotta: «fra mezzi e fini vi è la stessa relazione che esiste fra seme e albero». 

Durante il regime fascista Capitini rompe con la Chiesa cattolica proprio per l’alleanza lateranense tra croce e moschetto. Nel 1932 abbraccia il vegetarianesimo come “arma” dell’azione nonviolenta e di resistenza al fascismo che si stava avviando verso un epilogo tragico. 

Mi decisi al vegetarianesimo nel 1932, quando, nell’opposizione al fascismo, mi convinsi che l’esitazione ad uccidere animali avrebbe fatto risaltare ancora meglio l’importanza del rispetto dell’esistenza umana. 

Tra il 1931 ed il 1943 diventa quindi un punto di riferimento importante per molti giovani antifascisti. Imposta un’opera religiosa nel significato proprio della parola: in tempi di grande disorientamento egli seppe collegare e unire persone, giovani, intellettuali, operai, gente del popolo, dando loro una speranza. Rovesciando l’antico detto latino si vis pacem, para bellum, Capitini imposta il suo lavoro culturale sull’ipotesi «se vuoi la pace, prepara la pace». 

Aldo Capitini è stato un “irregolare”, nella politica e nella religione, sempre teso a trovare una posizione di coscienza, coerente con la scelta di nonviolenza. 

L’attivismo “solitario “ del dopoguerra 

Nel dopoguerra non aderisce ad alcun partito, pur essendo molto vicino all’ideale liberal-socialista al quale voleva portare “l’aggiunta nonviolenta”; proprio per questo Capitini, che fu tra i primissimi ed i pochissimi a rifiutare da subito il fascismo e che tanto fece e patì durante il regime di Mussolini, venne lascito fuori dal Comitato di Liberazione Nazionale e dalla Costituente. 

Da solo inizia un lungo lavoro per l’affermazione del metodo della nonviolenza. Fino alla morte è attivissimo: fonda i Centri di Orientamento Sociale, il Movimento di Religione, il Centro di coordinamento internazionale per la Nonviolenza, la Società Vegetariana Italiana, l’Associazione per la difesa e lo sviluppo della Scuola pubblica, la Consulta Italiana per la Pace, il Movimento Nonviolento. Organizza convegni e seminari sui temi della pace, delle tematiche religiose, della scuola, della pedagogia. 

È sempre Capitini a valorizzare e far conoscere in Italia e all’estero la figura di Danilo Dolci e il suo primo digiuno politico, nel 1952, sul letto di un bambino morto di fame in Sicilia. Nell’incessante lavoro di diffusione della nonviolenza gandhiana, Capitini viene invitato a Barbiana da Don Lorenzo Milani, il quale poi citerà Gandhi e la nonviolenza nella sua famosa lettera ai cappellani militari L’obbedienza non è più una virtù. 

Scrive e pubblica moltissimo: La realtà di tuttiNuova socialità e riforma religiosaL’atto di educareIl fanciullo nella liberazione dell’uomoReligione apertaColloquio coraleRivoluzione apertaL’obiezione di coscienza in ItaliaBattezzati non credentiL’educazione civica nella scuola e nella vita socialeLa compresenza dei morti e dei viventi, Educazione aperta, Le tecniche della nonviolenza. Fonda e dirige anche due riviste: “Il potere di tutti” e “Azione nonviolenta”. 

Capitini è conosciuto dal grande pubblico come l’ideatore della Marcia della Pace da Perugia ad Assisi. La prima si tenne il 24 settembre del 1961. La Marcia per la Pace Perugia-Assisi è un grande evento della storia d’Italia. Sono centinaia di migliaia le persone che in tanti decenni vi hanno partecipato. Possiamo dire che essa è stata una palestra di formazione politica, di cittadinanza attiva, una “assemblea itinerante” per la pace. 

Nella sua autobiografia, intitolata Attraverso due terzi di secolo, pubblicata nel 1968 pochi mesi prima di morire, Capitini scrive. 

Nel campo della nonviolenza, dal 1944 ad oggi, posso dire di aver fatto più di ogni altro in Italia. Ho approfondito in più libri gli aspetti teorici, ho organizzato convegni e conversazioni quasi ininterrottamente. Sono, insomma, riuscito a far dare ampia cittadinanza, nel largo interesse per la pace, alla tematica nonviolenta. Come teoria e come proposte di lavoro, la nonviolenza in Italia ha una certa maturità. 

Omaggio al grande pacifista, nuotatore controcorrente 

Nell’ottobre del 1968 il leader socialista, dopo la scomparsa di Capitini a Perugia, Pietro Nenni annotava nel suo diario: 

È morto il prof. Aldo Capitini. Era un’eccezionale figura di studioso. Fautore della nonviolenza, era disponibile per ogni causa di libertà e di giustizia. Lo conoscevo poco di persona. Invece avevo con lui una vecchia collaborazione epistolare nel senso che mi scriveva sovente di ognuno dei problemi morali della società contemporanea. Mi dice Pietro Longo che a Perugia era isolato e considerato stravagante. C’è sempre una punta di stravaganza ad andare contro corrente, e Aldo Capitini era andato contro corrente all’epoca del fascismo e di nuovo nell’epoca post-fascista. Forse troppo per una sola vita umana, ma bello. 

La nonviolenza, come diceva Gandhi, è “antica come le montagne”, ma la via italiana alla nonviolenza non può che passare da questa storia e dalle strade percorse da Aldo Capitini che aveva fatto anche troppo per una sola vita umana. 

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