Un po’ come il filo d’erba, che non cresce dagli estremi bensì attraverso le sue parti intermedie, anche lo sviluppo dell’efficienza energetica esige un impegno diffuso nel cui contesto, grazie a un approccio olistico, tutti gli attori – individuali e collettivi, grandi e piccoli – diventino protagonisti del cambiamento. Solo se certi comportamenti sapranno attecchire su larga scala, infatti, sarà possibile contribuire davvero a contenere le emissioni di gas clima alteranti.
“A scaffale”, d’altronde, non ci sono prodotti tecnologici dalla cui mera adozione l’efficienza energetica possa direttamente conseguire con certezza e su vasta scala. La tecnologia può aiutare, ma non basta: a tutti i livelli, chi vuole fare la differenza deve soprattutto modificare prassi e abitudini consolidate, abbinando in modo creativo innovazione tecnologica e misure comportamentali.
Questo vale fra le mura domestiche, dove piccole attenzioni volte al contenimento dei consumi di acqua ed energia possono generare benefici pari a quelli derivanti dall’installazione di caldaie a condensazione di ultima generazione.
Ma vale anche per il settore industriale, dove la concentrazione dei punti di consumo è superiore ai tradizionali ambiti domestici e del terziario. In Italia certamente molto è stato fatto, soprattutto sotto la spinta degli alti costi energetici che caratterizzano storicamente il nostro comparto produttivo, tuttavia il potenziale inesplorato è ancora molto vasto. In molti casi, peraltro, si tratta di interventi relativamente contenuti: pur interessando una minima percentuale dei consumi totali dell’azienda, infatti, essi riescono a risultare significativi in valore assoluto, favorendo il conseguimento di importanti target di efficienza che, una volta raggiunti, contribuirebbero in misura apprezzabile a ridurre le emissioni di CO2 e la quota di effetto serra che ne dipende. Basti pensare che una media azienda chimica, in grado di diminuire anche solo del 2% i propri consumi energetici, potrebbe risparmiare energia primaria in quantità simili al consumo annuo di 130 abitazioni. Migliore programmazione delle linee di produzione, eliminazione degli scarti di produzione, riduzione del funzionamento a vuoto, ottimizzazione della regolazione sono solo alcuni esempi di misure comportamentali che possono dare frutti anche con poche dotazioni fisiche.
A questo scopo, occorrono però competenze trasversali e multidisciplinari, capaci di costruire logiche di modulazione, digitalizzazione dei processi produttivi e gestione strategica dei dati acquisiti, anche con l’adozione di modelli di intelligenza artificiale. La sfida è quindi complessa e per vincerla non esistono scorciatoie, soprattutto rispetto all’asse dei tempi.
In coerenza con il ruolo abilitante che le multiutility sono chiamate a svolgere in favore del cambiamento, il Gruppo Hera opera sui vari fronti, clienti residenziali, imprese e Pubblica Amministrazione. La strada da fare è tuttavia ancora molta, anche perché non tutti gli attori intraprendono con la stessa convinzione la strada dell’efficienza energetica. Per spiegare questi ritardi non c’è, a ben vedere, una sola risposta.
Si può cominciare, credo, con una considerazione di ordine psicologico. Soprattutto se impegnativa e complessa, infatti, un’azione viene intrapresa non tanto per ragioni di principio quanto piuttosto, come dimostrano gli studi di Richard Thaler (2014) sull’economia comportamentale, sulla base di altri fattori, tra cui l’attenzione a quello che fanno gli altri e la cosiddetta “avversione alla perdita”, che nel caso dell’efficienza energetica conduce a dispiacersi della spesa dovuta a consumi non abbastanza efficienti. Le ipotesi di Thaler, confermate da un esperimento condotto in California sui consumi energetici di 300 famiglie, si fondano su presupposti analoghi a quelli cui si sta opportunamente orientando l’ordinamento comunitario europeo che, già con la direttiva 2012/27/UE, ha mostrato di aver chiaro il potenziale derivante dalla sola modifica dei comportamenti di consumo di energia.
Purtroppo solo pochi tra gli Stati membri hanno cominciato a tradurre tutto ciò in coerenti politiche di stimolo e a costruire quella che lo stesso Thaler definisce “architettura delle scelte”, cioè quell’insieme di condizioni che favoriscono l’adozione di misure comportamentali funzionali all’efficienza energetica. Da quest’ultimo punto di vista una felice eccezione è rappresentata dall’Italia, che sul tema esprime posizioni di avanguardia. Penso all’installazione massiva di contatori elettronici per la misura dei consumi domestici, ma penso anche – nell’industria – all’avvio del programma europeo di diagnosi energetiche, tutte misure irrinunciabili per stimolare efficacemente la modifica dei comportamenti. Inoltre, con il decreto dell’11 gennaio 2017, il nostro Paese ha disposto che anche l’adozione di misure comportamentali tese all’efficientamento energetico rientri fra le azioni che possono accedere ai contributi previsti dalla regolamentazione dei titoli di efficienza energetica (TEE).
Dando prova di grande lungimiranza, il legislatore ha poi evitato di circoscrivere il dominio delle misure comportamentali alle sole utenze domestiche, aprendolo così alla sua declinazione anche verso altri domini come quello industriale, il cui potenziale è ancora largamente inespresso. L’intuizione è corretta, anche perché l’architettura delle scelte in cui si colloca un imprenditore è più articolata di quella in cui maturano i comportamenti di un’utenza domestica, per i quali possono essere sufficienti poche e chiare indicazioni. Al momento, per tante aziende, gli investimenti in efficienza energetica ricadono al di fuori del cosiddetto “percorso di minor resistenza” cui solitamente si orientano i dirigenti d’azienda.
Diversi, anche qui, i motivi. Pesa, certamente, la mancanza di competenze trasversali, grazie alle quali individuare e attuare gli interventi di efficientamento, che sono perlopiù composti, non standardizzabili e irriducibili alla sola acquisizione di un dato apparecchio. A questo si aggiunga che le iniziative di efficienza energetica – oltre a non riuscire da sole a ridurre drasticamente i costi operativi – vengono percepite come una potenziale fonte di perturbazione nei confronti della continuità produttiva e faticano a soddisfare le soglie di redditività richieste, molto più alte di quelle accettate per le attività core, considerate nice to have.
Per queste ragioni, un incentivo strutturato e credibile rimane imprescindibile, non soltanto per vincere le resistenze all’avvio ma anche perché si tratta di interventi che solo nel corso del tempo producono un ritorno accettabile. È fondamentale però che non si crei un conflitto, attraverso una mutua esclusione, fra incentivi relativi a obiettivi complementari: le agevolazioni fiscali previste dal programma Industria 4.0, ad esempio, spingono per una modernizzazione tecnologica che non necessariamente persegue obiettivi di efficienza e anzi, in alcuni casi, può portare anche a incrementare l’intensità energetica. Sarebbe opportuno, in questo senso, rilanciare il tema della certificazione ISO 50001, che oggi riguarda solo una piccola parte degli stabilimenti italiani: implementando le procedure richieste da questa certificazione, infatti, si creano architetture di scelte che favoriscono in maniera sistematica azioni volte al miglior uso possibile dell’energia.
Soggetti come Hera continueranno a impegnarsi sul fronte dell’efficienza energetica, ma è indispensabile che la loro azione sia affiancata da bravi “architetti delle scelte”, capaci di costruire “percorsi di minor resistenza” dentro i quali le iniziative di efficienza energetica trovino finalmente posto, diventando così decisive per quello sviluppo sostenibile a cui tutti siamo chiamati.