Il calderone delle telecomunicazioni è in piena ebollizione. Ci sono in ballo partite importanti dagli esiti incerti. In primo luogo quella sulle deleghe al Ministero dello sviluppo economico che, come noto, sono rimaste nella titolarità del ministro Luigi Di Maio.
In casa Mediaset è scattato l’allarme rosso, a tal punto da far dichiarare a Silvio Berlusconi sulle colonne del Corriere della Sera di ieri che “quello, se potrà, ci farà chiudere le nostre televisioni”. Si prospetta un braccio di ferro che potrà partire sul terreno degli affollamenti pubblicitari come pure su un altro terreno scottante che riguarda l’avvio delle procedure per la riallocazione delle frequenze intorno ai 700 Mhz.
Ieri, sulle colonne di Repubblica, Aldo Fontanarosa ha dato notizia che il gruppo di Cologno Monzese e quello che fa riferimento a Urbano Cairo hanno presentato ricorso al Tribunale amministrativo per cercare di limitare i danni conseguenti alla sottrazione di parte delle loro frequenze, seppure a fronte di relativo compenso. Rimane il fatto che, come era prevedibile, questo tema aprirà un vasto fronte di problemi e di contenziosi di carattere economico e di politica industriale del Paese e anche in casa AgCom sembrano esserci opinioni articolate.
Secondo una fonte ripresa dal Corriere delle Comunicazioni, l’Autorità potrebbe predisporre una nota su alcuni aspetti critici da sottoporre al nuovo Governo. È necessario ricordare che l’asta sulle frequenze dovrebbe portare nelle casse dello Stato oltre 2,5 miliardi di Euro, peraltro già inseriti nelle previsioni di bilancio e si potrebbe, con l’incertezza dei ricorsi, correre il rischio di dover rinviare l’operazione.
Il soggetto che pure è direttamente interessato all’argomento è la Rai che, proprio ieri in Consiglio di Amministrazione, ha affrontato le possibili conseguenze dell’applicazione di quanto previsto dal contrato di servizio recentemente approvato. Come abbiamo più volte scritto, alla Concessionaria pubblica viene richiesto di fare più di quanto le previsioni di bilancio possano consentire. In particolare, si richiede di garantire la copertura del 100% del territorio nazionale con un onere previsto di spesa di diverse decine di milioni.
Allo stesso tempo, in altri paesi, come ha riportato recentemente il quotidiano inglese The Guardian, la BBC in accordo con altre emittenti hanno dato via informalmente ad un tavolo di lavoro per progettare una exit strategy dal digitale terrestre a fronte di un modello di diffusione dei prodotti audiovisivi su altre piattaforme. Il pericolo all’orizzonte per Viale Mazzini è analogo: il progressivo spostamento di attenzione da parte del pubblico, specialmente giovanile, verso forme e modelli di fruizione dei contenuti in modo non lineare, attraverso piattaforme e strumenti sui quali il Servizio pubblico avverte un ritardo significativo. Il combinato disposto di queste due dinamiche, tecnologica e socioculturale, lasciano intravvedere uno scenario poco rassicurante per la Rai.
A tutto questo come si cerca di porre rimedio? Intanto con l’applicazione della Legge del 2015, fortemente voluta dal precedente Governo di Matteo Renzi, che in primo luogo ridisegna la sua governance. Il nuovo Cda (l’attuale è in scadenza con la presentazione del bilancio a fine mese) verrà sostituito da sette membri, dei quali uno indicato dal Governo in carica assumerà il ruolo di Amministratore Delegato.
Gli altri componenti saranno quattro di fonte parlamentare, un altro sempre indicato dal Governo, ed uno eletto dai dipendenti Rai. Questo nuovo consiglio, che a quanto ci risulta dovrebbe assumere l’incarico in concomitanza con la composizione della Commissione bicamerale di Vigilanza sulla Rai, prevista entro la prima decade di luglio, avrà il compito non solo e non tanto di gestire le partite correnti, a partire dalla qualità dei prossimi palinsesti che, per evidenti motivi, si troveranno per buona parte già contrattualizzati, quanto più di elaborare e far partire un nuovo piano industriale insieme a quello editoriale.
Sull’informazione, il Governo, a questo proposito, ha fatto sentire rumori di guerra: “alcuni telegiornali sono rimasti agli anni ‘20” ha dichiarato l’altra sera Matteo Salvini intervistato da Lilli Gruber. Detto da lui che si è dichiarato spesso aperto sostenitore dell’abolizione del canone Rai, lascia ben intendere quali prospettive si intravvedono.
A proposito dell’elezione del consigliere da parte dei dipendenti, a Viale Mazzini circola molto nervosismo. Sono stati ammessi 15 candidati, teoricamente in possesso dei requisiti, previsti dal regolamento: “…prestigio e competenza professionale e di notoria indipendenza di comportamenti, che si siano distinti in attività economiche, scientifiche, giuridiche, della cultura umanistica o della comunicazione sociale, maturandovi significative esperienze manageriali”.
Su quest’ultimo punto, in particolare, si è aperta la polemica interna in quanto non sono pochi quanti ritengono che, sommariamente, chi potrebbe avere i voti non ha le competenze e viceversa. Comunque, a quanto sembra, sono in corso serrate trattative per ridurre la rosa dei concorrenti, in particolare tra il nutrito gruppo dei dirigenti iscritti all’AdRai, l’Associazione tra i dirigenti dell’Azienda. Perché tanta attenzione sul consigliere espresso dai dipendenti?
Nonostante quanti ritengono che il suo ruolo debba prevalentemente consistere in “controllo e garanzia”, in buona sostanza questa figura potrebbe – o dovrebbe – essere la sola a rappresentare una visione del servizio pubblico radiotelevisivo in continuità con quanto di buono è stato fatto ed in prospettiva di quanto sarà necessario fare nel prossimo futuro almeno per evitare, come ci è stato detto, di “fare la fine dell’Alitalia”.
La partita è solo all’inizio e le poste in gioco sono troppo alte per essere giocate al ribasso. Sapere e capire se ci dovrà essere, come e cosa debba rappresentare il Servizio pubblico radiotelevisivo è la questione più rilevante.