La grande crisi finanziaria e l’innovazione tecnologica sono i due principali fattori che hanno determinato l’evoluzione del sistema bancario italiano nel primo scorcio del nuovo secolo. Entrambi i fattori hanno avviato un percorso di trasformazione selettiva dell’intermediazione bancaria. Un percorso non ancora compiuto, i cui effetti a lunga scadenza non sono ancora facilmente individuabili. Le banche sono già profondamente cambiate. Nel periodo 2016-2009 il ridimensionamento del sistema bancario italiano presenta valori impressionanti: nei soli sette anni di crisi si sono persi circa 30000 addetti, 5000 sportelli e 184 banche. Con un impatto diverso nelle due grandi aree del paese. In termini relativi il riassetto ha riguardato più le banche e gli occupati nel Mezzogiorno e più gli sportelli nel Centro-Nord.
La nostra riflessione, che sintetizza i risultati della ricerca MoFiR sull’impatto asimmetrico della nuova regolamentazione, finanziata dalla Fondazione Creval, ha lo scopo di inserire in questo processo evolutivo i rapporti banca e impresa. Si deve capire se le banche locali sono “too small to survive” e fino a che punto sia meglio avere una struttura bancaria incentrata su poche grandi banche. In questo caso non si deve però sottovalutare il “ricatto del too big to fail”, che pone problemi di azzardo morale con il rischio di rendere inevitabili interventi di salvataggio.
La tesi che viene avallata dalle politiche di regolamentazione bancaria – che, come le nostre rilevazioni dimostrano, hanno effetti dimensionali asimmetrici a danno delle banche di minore dimensione – considera inevitabile un ulteriore consolidamento con la presenza di un minor numero di banche con maggiori dimensioni medie. Questa tesi non trova però riscontro nei dati diffusi dalla Banca d’Italia, secondo i quali le banche locali hanno ancora un ruolo rilevante nel sistema bancario e nell’economia del nostro paese, non solo in termini numerici, anche nel sostegno alle piccole imprese e ai sistemi economici locali, che rimangono una componente rilevante della struttura produttiva italiana.
Nella crisi le banche hanno svolto un ruolo di spugna con un duplice effetto di assorbimento e di trasmissione dei fattori di crisi. A sostegno dell’effetto di assorbimento si ricorda che nel periodo critico le banche locali hanno aumentato sia la loro quota di prestiti all’interno del sistema bancario, sia il peso dei prestiti alle piccole imprese. Si tratta di un primo indizio che evidenzia la caratteristica delle banche locali a essere tendenzialmente meno pro-cicliche delle non locali. Così attenuano l’impatto della crisi sulle imprese e in particolare sulle piccole, con le quali hanno rapporti maggiori e più durevoli. A questo vantaggio tipico del radicamento territoriale si contrappone l’effetto contagio che alla lunga si trasmette dalle imprese locali in crisi di fatturato e alle banche esposte nei loro confronti.
Le conclusioni che possiamo trarre dalla nostra analisi sono le seguenti.
Per quanto riguarda l’effetto della crisi, tutte le banche, e non solo in Italia, hanno subito un impatto negativo. Il dato di sintesi più emblematico è l’aumento del credito deteriorato, che ha prodotto forti perdite in conto capitale e ridotto drasticamente la redditività dell’intermediazione bancaria.
Alla riduzione della redditività ha concorso anche la prolungata politica monetaria espansiva che ha ridotto ai minimi livelli i tassi di interesse e i margini di intermediazione dell’operatività bancaria. In questo contesto, le banche locali sono state maggiormente penalizzate in termini di diseconomie di scala.
L’innalzamento dell’asticella delle economie di scala appare il principale impatto negativo derivante non direttamente dalla crisi, ma piuttosto dalle controindicazioni della terapia di politica monetaria espansiva. Quando alla fine della terapia i tassi torneranno ad aumentare questo effetto negativo tenderà a ridursi.
L’elaborazione di indicatori che abbiamo compiuto sui bilanci delle diverse tipologie di banche, distinte per dimensione, ci porta a sostenere la conclusione che l’impatto della crisi non abbia avuto conseguenze peggiori per le banche più piccole rispetto alle maggiori. Addirittura, si sono attenuate alcune diversità strutturali pre-crisi che mettevano in evidenza la potenziale maggiore rischiosità delle banche locali, più esposte al contagio del coinvolgimento con le piccole imprese tendenzialmente più rischiose.
Non si può negare che ci siano state banche in grave crisi, però non solo locali. Nell’insieme le banche di minori dimensioni hanno saputo rispondere alla crisi in modo non diverso dalle banche maggiori con maggiori coperture patrimoniali e anche con adeguate rettifiche per le coperture sui crediti. Più della crisi, che ha sostanzialmente livellato gli indicatori di rischiosità bancaria, sembrano avere influito in modo discriminante sulle banche locali le politiche di stabilizzazione anti-crisi.
In primo luogo, la politica monetaria espansiva della quale abbiamo già detto. L’altro fattore di policy distorsivo delle economie di scala è dovuto alla politica di regolamentazione, che è stata introdotta in modo esteso e invasivo. L’obiettivo dichiarato e condivisibile è quello della stabilità. Sono però meno condivisibili le modalità e gli effetti asimmetrici che si stanno evidenziando.
In presenza di un principio di proporzionalità non adeguatamente applicato, un sistema di regolamentazione di crescente dimensione e complessità può influenzare il livello di concorrenza all’interno del sistema bancario. Questo effetto porta all’innalzamento delle barriere all’entrata nel settore, imponendo costi fissi dagli effetti eterogenei sulle diverse categorie dimensionali di banche.
Infine, la pervasività e l’eterogeneità delle prescrizioni regolamentari sulle diverse funzioni svolte dalle banche comporta condizionamenti significativi sui diversi business models adottati dalle stesse banche. In Europa il principale impedimento per la costruzione di un approccio realmente basato su una proporzionalità effettiva è rappresentato dalla scelta fatta in passato di applicare gli standard definiti dagli accordi di Basilea a tutte le banche indistintamente, anche a quelle più piccole e locali. Questo approccio non si concilia più con i principi stabiliti dalla normativa europea più recente.
Il tema della proporzionalità è poco studiato, come pure quello della dimensione e dei costi della regolamentazione. I costi di compliance legati alla regolamentazione sono sostanzialmente dei costi fissi che non variano con la scala del soggetto vigilato e introducono una sorta di economie di scala da regolamentazione nel “fare banca”.
D’altro canto, le esternalità negative di un’eventuale crisi bancaria sono crescenti all’aumentare della dimensione della banca. Pertanto, se si volesse sostenere l’opportunità di gravare di un onere regolamentare maggiore le piccole banche andrebbe almeno dimostrata la maggiore fragilità e la maggiore rischiosità sistemica delle stesse.
In realtà, questa dimostrazione non viene giustificata dai dati di bilancio, secondo i quali il vaglio selettivo della crisi non sembra aver penalizzato in modo particolare le banche locali. La nostra convinzione è che non debba essere il regolatore a selezionare la tipologia di banche preferibile. Deve essere lasciato al mercato il compito di valutare quali siano le strutture efficienti. In generale, i principi della diversità delle strutture e della proporzionalità del sistema dei controlli devono essere obiettivi da valorizzare, a vantaggio della concorrenza che produce efficienza e della diversificazione dei modelli di business che produce stabilità.
Questa problematica va rivista monitorando attentamente l’impatto della grande trasformazione tecnologica sul sistema finanziario e bancario determinato dai nuovi prodotti e processi dei fintech. In questo caso si tratta di proiettare la riflessione sul futuro, che arriva a velocità crescente. Con tutte le incognite su nuove opportunità e nuovi rischi che ciò comporta.
La riflessione la debbono fare le banche, oltre alle autorità monetarie. Le banche sono chiamate a compiere grandi investimenti per non accumulare ritardi verso forme di intermediazione non bancaria, che sono già in atto. Non solo è in gioco la centralità dell’intermediazione bancaria, che comunque verrà ridimensionata. Va inoltre rivisto il concetto di concorrenza. Che tende sempre più ad essere tra banche e non banche, piuttosto che tra banche grandi e banche piccole o tra banche non locali e locali.
A prima vista, i dati sugli ingenti investimenti che si richiedono mettono in maggiore difficoltà le piccole banche. Ancor più perché con le nuove tecniche a distanza si possono acquisire informazioni comportamentali delle piccole imprese, che tradizionalmente sono state il punto di forza delle banche locali. Comunque non solo il localismo, ma anche lo stesso concetto di dimensione andrà rivisto.
Conteranno sempre meno le dimensioni strutturali e sempre più la capacità di gestire grandi volumi di attività anche con piccole strutture. Questo è già possibile nel mondo delle imprese, anche delle piccole. Sarà possibile anche nel mondo bancario. Dove ciò che conterà saranno le competenze gestionali e le capacità di connessione, che debbono essere un punto di forza di ogni tipologia di banca, grande o piccola. Su questo fronte l’evoluzione competitiva rimane aperta. Ed è ancora tutto da verificare alla prova dei fatti.
°°° I due autori sono economisti del centro di ricerca MoFir e del Dipartimento di Scienze Economiche e Sociali del Politecnico delle Marche