Nella seconda metà del 2020 e per tutto il 2021 il mondo non sarà in recessione. Quanto meno, non lo saranno la Cina e tutte le economie che le ruotano intorno. Il primo luglio 2021 cadrà infatti il centesimo anniversario del Partito Comunista Cinese e la sua leadership farà il possibile e anche l’impossibile per presentare ai cinesi e al mondo un paese stabile e fortemente orientato alla crescita. Anche se negli ultimi tempi Xi Jinping ha messo l’accento più sulla qualità che sulla quantità della crescita, possiamo stare certi che, quale che sia l’obiettivo per il Pil del 2021, questo verrà non solo raggiunto ma anche superato.
Il PCC, che storicamente è al tempo stesso partito di origine terzinternazionalista e movimento di liberazione nazionale, si legittima con la rivoluzione e con la guerra antigiapponese, cioè con il suo passato. I 90 milioni di membri del partito decidono per il miliardo e mezzo di cinesi perché sono gli eredi dei fondatori della nuova Cina. Con il passare dei decenni, tuttavia, la legittimazione dalla storia si affievolisce insieme al ricordo degli eventi. Subentra allora la legittimazione per inerzia, che però i governati concedono all’elite solo se questa continua a garantire sicurezza e crescita. Xi Jinping razionalizza questo contratto sociale e politico utilizzando la narrazione neoconfuciana.
Il popolo ubbidisce e rispetta il partito e in cambio questo si impegna a non essere corrotto e a garantire l’ordine e un benessere crescente. Anche l’Unione Europea si legittima attraverso la sua storia tragica molto più che attraverso il tradizionale processo democratico, che i padri fondatori e ispiratori (Monnet e il suo maestro ideologico Kojève) vedevano come non solo superfluo, ma addirittura di intralcio. Ma il passare dei decenni si fa sentire anche da noi e il ricordo della pace postbellica (che fu in realtà frutto della Guerra Fredda e della protezione atomica americana sull’Europa occidentale) si affievolisce.
Ecco allora che l’Europa, alla fine degli anni Ottanta, si inventa una sua ideologia (i diritti umani e il patriottismo della costituzione). Il filosofo ufficiale dell’Unione, Jürgen Habermas, parte dal kantismo di Kelsen e dal modernismo di Max Weber e confeziona un sistema che, ancora una volta, è più liberale che democratico. È un sistema che da una parte non sempre dà gran prova di sé una volta declinato nella pratica (la tragedia dei Balcani, la guerra civile ucraina, la Libia, la Siria, la gestione dell’immigrazione) e che soprattutto, nel suo algido formalismo, non scalda i cuori. Rimane allora, anche per l’Europa, la legittimazione per inerzia (smontare tutto sarebbe molto complicato, come vediamo con la Brexit), che ha comunque bisogno che il contratto politico per cui la tecnocrazia viene accettata in cambio di sicurezza e crescita continui a funzionare.
Il voto italiano ha un retrogusto antieuropeo non per motivi ideologici ma perché denuncia una percepita violazione del contratto politico. Se l’Europa non garantisce la crescita la sua legittimazione comincia a venire meno. È vero, l’Italia cresce di nuovo da tre anni, ma l’elettore arrabbiato non guarda al Pil all’1.6, un dato astratto, ma al figlio che resta a casa disoccupato per un altro anno. Flat Tax, Fornero e reddito di cittadinanza, che sfiorano insieme il 70 per cento dei consensi, hanno un tratto comune, la richiesta di crescita e reflazione. Questa richiesta può essere declinata con accenti sviluppisti o assistenziali, ma in freddi termini contabili è reflazione fiscale da attuare in deficit.
La reflazione fiscale in deficit è il male assoluto per l’ideologia europea. L’elettore italiano lo sa bene, ma civetta con l’eresia in gran parte guidato dalla pancia, ma anche perché l’ortodossia gli appare sempre meno coerente con se stessa. Cosa possono essere i 20-30 miliardi di una eventuale reflazione fiscale italiana (che se spesi in pari misura da tutti i paesi dell’eurozona diventebbero 160) quando l’America, tra tasse tagliate e spese aumentate, ne sta attuando una di dimensione doppia e sta considerando, proprio in queste ore, di renderla permanente? E poi che senso ha impuntarsi su 20-30 (o 160) miliardi e dipingerli come l’anticamera dell’inferno quando il Quantitative Easing europeo ne ha creati dal nulla 2500?
Certo, non sono esattamente la stessa cosa, ma l’idea che il tutto sia piuttosto arbitrario comincia a diffondersi. Quanto al debito italiano così elevato, come reagire di fronte alla notizia che in Giappone martedì, normale giornata lavorativa, non è stato scambiato in tutto l’arcipelago un solo titolo di stato decennale perché la banca centrale in questi anni ne ha ricomprati così tanti che in giro ce ne sono ormai ben pochi? Se lo fa un paese con un debito molto più alto non lo possono fare tutti? E non dimentichiamo che la somma di debito privato e pubblico, la vera metrica che anche il Fondo Monetario guarda quando giudica i paesi, è del 250 per cento del Pil negli Stati Uniti, del 256 in Cina, del 265 in Italia, del 275 in Spagna, del 280 nel Regno Unito. Non siamo certo i soli ad avere qualche problema.
Un vero ortodosso potrebbe a questo punto sostenere, come fecero alcuni agli albori del Qe, che il Quantitative Easing è stato profondamente diseducativo e ha aperto un vaso di Pandora di aspettative miracolistiche che alla fine distruggerà la fiducia nella moneta e il timore dei vincoli. Un americano direbbe invece che a casa sua il Patto di Stabilità e Crescita (dove la crescita venne aggiunta solo per bellezza) sarebbe semmai un Patto di Crescita e basta. Nel suo universo parallelo ci sarebbe un vincolo di crescita minima, poniamo il 2 per cento, e la Commissione aprirebbe una procedura d’infrazione per i paesi, come l’Italia, che non riuscissero a rispettarlo. Nel caso di un prolungarsi della bassa crescita arriverebbe la troika. La Fed, in effetti, ha un doppio mandato, crescita e inflazione, mentre la Bce ha solo l’inflazione.
Come che sia, il malessere italiano rende più piccola e insufficiente, psicologicamente, la portata della reflazione fiscale che Macron vorrebbe strappare alla Germania e che rischia di fare la fine del piano Juncker. L’Unione attraversa un momento delicato. A est il Gruppo di Visegrád va per conto suo. Otto paesi, guidati dall’Olanda, criticano i piani di reflazione fiscale di Macron e chiedono a lui e alla Merkel di non decidere loro due per tutti i 27 e di non allargarsi troppo nei loro progetti (facciamo, dicono testualmente, quello che bisogna fare e on quello che sarebbe bello fare). Questa condizione di debolezza indurrà Bruxelles e Berlino a essere abbastanza indulgenti verso l’Italia.
Dal canto suo la Bce, consapevole che nel maggio 2019 si vota in tutta l’Unione, manterrà una retorica distensiva e cercherà di prolungare il più possibile la crescita, pur consapevole che i livelli molto elevati che abbiamo visto negli ultimi mesi saranno difficili da mantenere. Venendo ai mercati, si nota un miglioramento di tono sui bond e una riduzione degli spread di credito. C’è un enorme short sui bond e le ricoperture potrebbero prolungare di qualche settimana questo modesto recupero. L’inflazione, almeno in America, è destinata a salire, ma non alla velocità che i mercati avevano iniziato a scontare. In questo scenario le borse avrebbero spazio per ulteriori recuperi, ma sono frenate dall’incertezza sui dazi e, soprattutto, dai dubbi su quello che farà la nuova Fed di Powell.
L’economia americana mostra qua e là qualche vuoto d’aria nei consumi e il primo trimestre, alla fine, non sarà spettacolare come si era pensato inizialmente ma nemmeno a crescita zero come qualche economista ha cominciato e dire nei giorni scorsi. Il dollaro è calmo e trae qualche giovamento dalla nomina di Kudlow a capo dei consiglieri economici di Trump. Kudlow è per un fair trade che sia il più possibile free e per un dollaro che sia stabile e, al limite, leggermente più forte. Con queste posizioni, Kudlow fronteggerà i protezionisti duri della West Wing, Peter Navarro in testa. Continuiamo a raccomandare posizioni costruttive ma leggere. Il 2018 è un anno che non ha più un unico vento favorevole e ha invece molte correnti d’aria, favorevoli e sfavorevoli, che continueranno a incrociarsi disordinatamente.