Contenuti digitali: il vincitore è lo streaming
Ormai è chiaro quali saranno i modelli vincenti dei contenuti digitali. Sarà lo streaming il modello di distribuzione egemonico e sarà l’abbonamento il modello di pagamento prevalente. A mettere il sigillo su questo stato di cose è stato il più grande gruppo media del mondo, la Disney. Ad agosto 2017 ha annunciato di ritirare i propri contenuti da Netflix per avviare un proprio servizio di streaming attivo dal 2019. Bob Iger ha spiegato la ratio di questa decisione in un articolo che abbiamo commentato in un post e al quale rimandiamo volentieri.
Questo passo della Disney, che nel frattempo ha anche acquisito dai Murdock la conglomerata 21st Century Fox, ha scatenato il parapiglia. Tutti stanno preparando la propria piattaforma di streaming sulla quale concentrare i contenuti proprietari fruibili tramite un abbonamento tra i 5 e i 10 dollari al mese. Sarà guerra dei gruppi media contro i tecnologici, e intestina a ciascun cluster, per conquistare l’attenzione e il portafoglio dei consumatori. Un’esplosione che lascerà senz’altro abbacinati questi ultimi. Speriamo che non succeda come ad Aleppo.
Una sensata divisione del lavoro
Finora c’era un certo equilibrio, un certo ordine, un certo perimetro di azione. I gruppi media, come Disney e Time Warner, fornivano allo streaming una porzione dei loro contenuti dai quali traevano degli ottimi ricavi; le piattaforme tecnologiche OTT, come Netflix e Hulu, prendevano questi contenuti e li portavano agli utenti sviluppando la tecnologia necessaria; infine i gruppi telefonici, come ATT e Verizon, fornivano l’infrastruttura fisica per trasmettere i contenuti agli abbonati tramite una qualsiasi connessione Internet.
C’era una precisa e sensata divisione del lavoro secondo i modelli classici dell’industria culturale. Incombevano, però, tre gravi criticità che sono esplose quando lo streaming è diventato mainstream nelle preferenze dei consumatori. Queste criticità traevano origine dal modo in cui questi tre soggetti si erano messi in questo business 10 anni prima.
I gruppi media lo vedevano come un nuovo interessante flusso di ricavi a patto che non confliggesse con il business dalle uova d’oro, quello della TV via cavo. Di fatto era proprio questo ad essere potenzialmente messo a rischio dallo sviluppo dello streaming su Internet, per l’identità del modello di business e dell’utenza di riferimento.
Le piattaforme di streaming dovevano sottostare alle condizioni dei gruppi media che centellinavano i contenuti e imponevano delle “barriere” su quelli premium, come la loro diffusione in differita o tramite finestre temporali. In questo modo i consumatori percepivano la piattaforma di streaming con simpatia ma come un servizio sostanzialmente ancillare a quello tradizionale. Una situazione che andava stretta agli ambiziosi leader della Silicon Valley.
Infine i mammut telefonici sentivano di beneficiare solo marginalmente del successo di mercato e di pubblico degli OTT che operavano a briglia sciolta sulla loro infrastruttura costosa da manutenere e innovare.
La rottura dei perimetri di azione
Sottotraccia a questo equilibrio c’era l’aspirazione di questi tre gruppi a controllare il business dei contenuti su Internet tramite la loro specifica posizione di potere. I gruppi media si beavano all’idea del “content is the king” e il loro stato d’animo veniva espresso bene da Jeff Bewkes, ex-boss di Time Warner, quando nel 2010, interrogato sulla minaccia di Netflix, aveva replicato che “Netflix era come l’esercito albanese alla conquista del mondo”, mancava degli armamenti, cioè dei contenuti.
Una situazione che oggi è cambiata e infatti il sentiment dei gruppi media somiglia a: “Al fuoco! La nave sta bruciando”. Si sono resi conto che il vecchio adagio del “content is the king” è un pezzo ormai stonato e sta lasciando il posto a una musica del tutto diversa. Il controllo del business digitale andrà a coloro che hanno una relazione diretta con i consumatori, cioè gli OTT. Per questo i conglomerati media hanno deciso che è arrivato il momento di trasformarsi in Netflix così da operare direttamente sul mercato della distribuzione con proprie piattaforme di streaming.
L’obiettivo di Netflix e dei tecnologici era invece quello di accrescere furiosamente la base degli abbonati che non solo era la misura del loro valore di mercato, ma permetteva di tracciare i comportamenti dei clienti e raccogliere in anticipo informazioni preziosissime sulle tendenze del gusto e sulle mode culturali. Inoltre i tecnologici innovavano furiosamente il servizio proponendo e abituando gli spettatori a nuove modalità di fruizione e di visione dei contenuti come la binge vision (le maratone) e l’accesso semplice e istantaneo da tutti i dispositivi connessi a Internet, cosa complicata con i fornitori della TV a pagamento. Infine, grazie a una capitalizzazione fuori dell’ordinario, i tecnologici iniziavano a investire nella produzione autonoma di contenuti oltre gli schemi classici e routinari, facendo leva sui big data e su risorse che neppure l’industria tradizionale riusciva a mettere in campo. Attraevano talenti, idee e pubblico che si erano visti solo nell’epoca d’oro di Hollywood. Netflix e Amazon nel 2017 hanno investito complessivamente più di 12 miliardi di dollari nella produzione di contenuti originali.
Nel 2017 anche i social media hanno iniziato a filtrare con lo streaming e Tim Cook, recentemente, ha dichiarato che Apple diventerà una compagnia media, scalando la montagna dei contenuti dal versante tecnologico.
Nel frattempo le compagnie telefoniche avevano avviato una poderosa azione di pressione nei confronti del governo e dei legislatori perché si mettesse fine al principio della “net neutrality” allo scopo di poter tariffare diversamente i servizi verso gli operatori e gli utenti finali. Un’iniziativa che ha dato i suoi frutti con l’avvento dell’amministrazione Trump che ha posto fine alla net neutrality e di fatto accolto il punto di vista delle compagnie telefoniche. Inoltre queste ultime si sono aggiunte alla fiera dei contenuti iniziando una furibonda campagna di acquisizione di gruppi media e di iniziative per assumere un ruolo rilevante nell’offerta di contenuti al grande pubblico. Quest’ultima iniziativa, però, paradossalmente ha finito per danneggiare i gruppi che l’anno intrapresa a riprova che il mercato non crede che i gruppi telefonici possano svolgere un’azione rilevante nella produzione e nello streaming dei contenuti. Nick Fildes sul Financial Times ha spiegato bener peché il mercato non ha premiato lo sforzo dei tecnologici. Rimando al suo articolo, “Telecoms groups’ bets on content come at a cost. Bold effort to show that more than ‘dumb pipes’ are on offer has proved expensive, with share prices taking a battering”, per approfondimenti.
La frammentazione non gioverà al consumatore
Ormai è guerra di tutti contro tutti. Sono stati proprio i consumatori ad accendere la miccia quando hanno iniziato a staccare il cavo dal decoder della televisione via cavo per agganciarlo allo spinotto
del modem, sostituendo il costoso abbonamento mensile della prima a quello molto più a buon mercato delle piattaforme OTT. Addirittura Amazon ha deciso di utilizzare lo streaming dei contenuti di qualità per supportare il suo core business nel commercio elettronico. Tutti gli abbonati al servizio Prime (spedizioni gratuite) potranno accedere gratuitamente a Prime Video, la piattaforma di streaming del gigante di Seattle sulla quale viaggiano anche i contenuti originali prodotti da Amazon Studio che sovente compaiono nelle cinquine degli Oscar, dei Golden Globes o degli Emmy Awards.
Il consumatore che ha dato inizio a questo parapiglia sarà il principale soggetto a trarne vantaggio, o c’è da dubitare sull’avvento di questo stato di cose? C’è da dubitare.
La estrema frammentazione dello streaming, al limite della balcanizzazione, porterà dei problemi ai consumatori. I contenuti non saranno più in un unico punto di accesso, ma dovranno essere inseguiti nel loro ambito specifico di rilascio; le varie piattaforme non saranno interoperabili e per ciascuna dovrà essere creato uno specifico account; si dovrà gestire un palinsesto disgregato e diffuso, ogni servizio avrà le proprie performance e i propri livelli di rendimento in termini di qualità della trasmissione e di efficienza di esecuzione.
Niente di irrisolvibile, ci saranno senz’altro degli aggregatori a unificare l’offerta, ma ecco un nuovo intermediario a frapporsi tra il consumatore e il servizio. Insomma sarà un bel bailamme.
Poi c’è una domanda ancor più esistenziale. Il business dei contenuti a pagamento si svilupperà sul modello abbonamento piuttosto che sull’acquisto al minuto anche per quel che concerne l’informazione, i libri, i videogiochi e già lo è per la musica. Quanti abbonamenti potrà sottoscrivere un consumatore con la speranza di poterli tenere sotto controllo così da valorizzare l’investimento effettuato? Invece che perdersi nel labirinto degli abbonamenti, non tornerà il consumatore a scaricare saltuariamente dai sistemi peer-to-peer gli spettacoli o i contenuti che al momento gli interessano, riservando l’abbonamento solo ai servizi con una offerta maggiore possibilmente ben assortita e distribuita tra i vari generi?
C’è poi il discorso del tetto di spesa. Molti fuggono dal cavo verso Internet per risparmiare sulla spesa media che può superare i 100 euro al mese. Possono questi consumatori accettare che il cumulo degli abbonamenti porti la spesa a superare quel livello che si reputava oneroso?
A questo e agli altri interrogativi che nascono da questo stato di cose ha cercato di rispondere Gady Epstein, il media editor dell’Economist, in un articolo dal titolo piuttosto esplicito “You ain’t streamed nothing yet”. Riportiamo qui di seguito le sue considerazioni che condividiamo totalmente. Buon proseguimento!
La rivoluzione dello streaming
Improvvisamente tutti vogliono diventare Netflix. C’è già un eccesso di opzioni di streaming per la televisione e il cinema. Negli Stati Uniti i videodipendenti possono già scegliere tra Amazon Prime, YouTube, HBO, Starz, Showtime, Hulu e CBS All Access. Altri paesi hanno il loro lauto menu di scelte. Ma questa epoca, già definita come “il picco della TV”, non ha ancora visto niente. Non è che l’inizio della rivoluzione dello streaming.
Nel 2018 ogni grande player di Hollywood e della Silicon Valley entrerà nella competizione dei contenuti televisivi o lavorerà per esserci nel 2019. Disney, Warner Bros, 21st Century Fox e AMC
sono sempre più impegnati direttamente nel business della TV via Internet. Jeffrey Katzenberg, l’ex capo degli studi di animazione della Disney e co-fondatore della DreamWorks Animation, sta cercando 2 miliardi di dollari per avviare un servizio su abbonamento per i video di breve durata — una specie di Netflix-bigino. Facebook ha intenzione di mettere più risorse nel video e sta già trasmettendo in streaming alcuni programmi televisivi. La stessa cosa stanno facendo Twitter e Snpachat.
È una guerra multimiliardaria per l’attenzione del consumatore. Il campo di battaglia si è trasferito dal grande schermo e (per molti) dal piccolo schermo a quello degli smartphone e dei tablet. Le imprese tecnologiche, ben capitalizzate, stanno investendo per aumentare il tempo trascorso dai consumatori su questi dispositivi. Per le imprese media tradizionali e gli studios di Hollywood la posta in gioco è la sopravvivenza. Stanno perdendo abbonati alla televisione dal momento che gli spettatori stanno preferendo al costoso pacchetto di canali della tv a pagamento, i video su Internet. Quattro grandi studio hanno già investito miliardi di dollari in Hulu, un servizio di streaming in co-proprietà, che è arrivato alla ribalta nel 2017 con la serie televisiva “The Handmaid’s Tale” che ha vinto 8 Emmy Awards e due Golden Globes. CBS ha avviato un proprio servizio con l’ammiraglia “Star Trek”, allo scopo di invogliare gli spettatori a cacciare i 9,99 dollari al mese per l’abbonamento. HBO, parte di Warner Bros, produce tra i più costosi spettacoli come “Il trono di spade” e “Westworld” con un investimento ad episodio di 10 milioni di dollari. Ad Amazon Jeff Bezos ha espresso l’auspicio per una produzione di originals del livello del “Trono di spade”. La televisione sta diventando più grande, più audace e più costosa di sempre.
E poi tre soli ne resterano…
La corsa allo streaming del 2018 e oltre ha avuto una accelerazione nell’estate del 2017 quando Bob Iger, il boss della Disney, ha annunciato che la casa di Topolino lancerà il proprio servizio di streaming nel 2019 e cesserà di lavorare con Netflix. Nello stesso torno di tempo John Landgraf, boss di FX (il canale via cavo di Fox) che produce serie come “Fargo” e “The Americans”, ha annunciato FX+, un servizio di streaming senza interruzioni pubblicitarie, disponibile per gli abbonati al servizio TV di Comcast al prezzo di 5,99 dollari al mese. AMC, che produce “The Walking Dead” e “Better Call Saul”, offre agli abbonati un servizio simile per 4,99 dollari al mese. Warner Bros sta producendo degli show per il servizio di streaming di DC Entertainment che dovrebbe iniziare nel 2018.
Per quanti servizi la gente dovrà pagare? Landgraf, che ha coniato il termine “peak TV”, ha il timore che a un certo punto ci saranno tanti servizi di streaming quanto sono i canali via cavo. Ci sarà un grande ridimensionamento, un big bang, di cui si avvantaggeranno i giganti tecnologici. Netflix e Amazon hanno grandi risorse e un vantaggio iniziale in termini di abbonati e gli studios faranno fatica a raggiungerli. La cosa buffa, si rammarica Landgraf, è che gli studios e i canali televisivi hanno contribuito a fare di Netflix un gigante vendendogli i loro film e i loro spettacoli televisivi.
C’è un’altra cosa buffa nella virata di Disney verso lo streaming. Alcuni anni fa la Disney voleva acquistare Netflix, quando ancora se lo poteva permettere. Ma la maggioranza dei dirigenti vedeva Netflix come un partner e un distributore e non come un concorrente. Oggi la Disney è uno dei grandi brand globali ancora in grado di creare un’alternativa a Netflix. Il topolino sarà uno dei pochi a sopravvivere alla imminente campagna di abbattimento.