C’è un convitato di pietra che s’aggira nella campagna elettorale ma che, come nel “Don Giovanni”, nessuno osa nominare e men che mai affrontare: è il debito pubblico italiano. Qualche tempo fa Gianni Toniolo, brillante storico dell’economia che ha insegnato in tante università in Italia e all’estero e che oggi insegna alla School of European Political Economy della Luiss, ha lanciato l’idea di un patto tra le forze politiche per la riduzione del debito. E’ inutile dire che i partiti vecchi e nuovi hanno fatto e fanno orecchie da mercante ma la mina vagante del debito italiano resta sul tappeto e ora che il Paese ha ripreso a crescere sarebbe il momento più propizio per neutralizzarla. Come ridurre il debito pubblico, per quali ragioni e con quali vantaggi lo spiega lo stesso Toniolo in questa intervista rilasciata a FIRSTonline.
Professor Toniolo, nei mesi scorsi, in un editoriale sul Sole24 Ore, Lei ha proposto ai partiti di sottoscrivere prima delle elezioni un patto per ridurre il debito pubblico: per caso qualche esponente politico s’è fatto vivo con Lei per commentare la proposta? Ma il fatto che oggi i partiti facciano promesse elettorali che in tutto costerebbero 130 miliardi di euro non Le sembra una beffa ai danni dei cittadini e soprattutto delle nuove generazioni.
“Non mi aspettavo contatti da parte di esponenti politici. Sarebbe invece utile si aprissero canali di comunicazione, anche riservati, tra i principali partiti per mettere al sicuro il debito pubblico, in un’ottica di lungo periodo, qualunque sia l’esito elettorale. Mi ha invece un po’ stupito che il tema sia quasi ignorato da commentatori ed economisti. Privatamente mi è stato detto che la mia è una proposta “politicamente irrealizzabile”. Forse questo scetticismo è fondato. Ma se è così, mi colpisce la distanza tra la nostra (in)cultura del debito e quella della maggior parte dei paesi avanzati dove una proposta come la mia non ha nemmeno motivo di essere formulata perché le parti politiche, la società civile, gli economisti danno per scontato che un elevatissimo e crescente debito pubblico rallenta la crescita economica, minaccia lo stato sociale, è un fattore elevato di rischio. Mi pare rivelatore il fatto che lo spread sui titoli del debito portoghese sia oggi inferiore al nostro”.
Il fatto che l’Italia sia tornata a crescere, che il nostro debito pubblico sia elevato da molto tempo e tuttavia finora sostenibile e che altri Paesi come il Giappone convivano con un debito più alto del nostro possono essere all’origine dell’assuefazione e della rimozione del debito pubblico dalla scala delle priorità da affrontare?
“Sin dall’Unità, in nostro è stato un paese ad elevato debito pubblico. Sinora, siamo riusciti a conviverci, pagando puntualmente gli interessi e rimborsando i titoli a scadenza. Convivere con il debito ha però avuto costi elevati: la spesa per interessi ha sottratto risorse agli investimenti e allo stato sociale (pensioni, sanità, assistenza), i tassi pagati ai detentori del debito sono stati più elevati che negli altri paesi, con effetti a catena sul costo dell’indebitamento per le imprese e per le famiglie, é stato meno agevole e più costoso usare la spesa pubblica in disavanzo per attenuare le depressioni cicliche. Inoltre, il livello attuale del nostro debito (il più elevato della nostra storia, a parte il primo conflitto mondiale) è percepito, a torto o a ragione, da chi deve sottoscriverlo (i cosiddetti mercati) come sempre più rischioso e questa percezione tiene lontani gli investitori stranieri e incoraggia gli italiani a diversificare altrove i propri investimenti. Il caso del Giappone è un po’ diverso, per vari motivi, ma anche in Giappone ci si domanda oggi quanto l’elevatissimo debito abbia contribuito al basso tasso di crescita dell’economia (il cosiddetto “ventennio perso”)”.
Quali sono, in buona sostanza, le principali ragioni che rendono oggi più importante che mai ridurre il debito pubblico?
“Per i motivi ai quali ho appena accennato, oltre una certa soglia, il debito rallenta la crescita economica. La fa anche rendendo problematico il rafforzamento della protezione sociale che a sua volta è indispensabile per affrontare le incognite della concorrenza internazionale e del progresso tecnico. Ma c’è un’altra ragione importante che consiglia oggi di dare un segnale credibile che la società italiana, rappresentata dalle principali forze politiche, sarà impegnata in una costante riduzione del debito pubblico, per un lungo arco di tempo futuro. Questa ragione riguarda il nostro ruolo nell’Unione Europea, impegnata, nel 2018, in un confronto politico circa il proprio assetto futuro. Finché l’Italia sarà percepita come partner rischioso, sempre alla ricerca di eccezioni alle regole comuni liberamente sottoscritte, il suo ruolo politico sarà inevitabilmente marginale. L’Unione Europea costruirà comunque il proprio futuro, attorno all’asse franco tedesco, e lo farà anche se il nostro paese starà ai margini a questa costruzione, incapace di promuovere i propri legittimi interessi nazionali. Un patto tra le forza politiche per un condiviso sentiero di riduzione del debito accrescerebbe il peso politico del nostro paese in Europa, chiunque andasse al governo”.
Ci sono molti modi di ridurre il debito pubblico ma soprattutto due: quello di tipo ordinario che punta, come suggerisce la Banca d’Italia, ad aumentare costantemente il saldo primario per ridurre nel tempo il rapporto debito/Pil sotto quota 100 e quello che poggia su operazioni straordinarie. La prima via è sicura ma lenta e la seconda è più rapida ma più insidiosa. Si può immaginare un mix tra le due soluzioni?
“La strada maestra è quella suggerita dalla Banca d’Italia, che – se ben comprendo – ha molto in comune con il sentiero stretto del quale ha più volte parlato il ministro Padoan, non sempre compreso da colleghi di governo e dal partito di maggioranza parlamentare. Soluzioni straordinarie potrebbero aiutare ad accelerare il processo ma vanno studiate attentamente sotto il profilo sia tecnico sia politico”.
Sul tavolo del premier Paolo Gentiloni c’è da mesi uno studio redatto da un team di esperti guidato da Franco Bassanini che ipotizza di concentrare tutti gli asset pubblici mobiliari e immobiliari in una superholding o in un fondo controllato dalla Cassa depositi e prestiti e dunque esterno alla Pubblica amministrazione da vendere parzialmente a fondi internazionali e a primarie istituzioni finanziarie italiane riducendo così parte del debito pubblico: al di là delle cifre in gioco può essere un segnale di buona volontà che merita di essere sostenuto?
“Il lavoro del gruppo di Bassanini merita attenta considerazione. Sinora i tentativi di alienazione del patrimonio pubblico si sono scontrati con ostacoli di ordine burocratico dietro i quali si nascondevano anche interessi di vario tipo. La Cassa depositi e prestiti ha le risorse tecniche e finanziarie per riuscire in questa impresa, qualora fosse sostenuta dal governo in modo convinto. Va detto però che questo tipo di soluzione (un fondo per l’ammortamento e la distruzione di titoli pubblici, già sperimentato in altri tempi e paesi) funziona solo se accompagnato dal “patto” per la riduzione costante del debito che cerco di sostenere. Il peggiore dei mondi possibili sarebbe quello di vendere l’argenteria di famiglia per continuare ad accrescere la spesa corrente in disavanzo. Insomma, vedo la proposta Bassanini come complementare, non sostitutiva, all’assunzione di un coerente impegno di lunghissimo andare per la riduzione del debito”.
Sempre sul Sole Lei ha scritto che la prova debito è il vero esame della rimonta dell’Italia ma ha anche riconosciuto che non solo la classe politica ma l’intero Paese vive nella cultura del debito e non riesce a liberarsene: vuol dire che anche gli economisti non sono riusciti a far capire la centralità del debito pubblico e che dovrebbero diventare più convincenti verso l’opinione pubblica e più incalzanti nei confronti delle forze politiche?
“Le parti politiche riflettono la visione della società e difendono gli interessi dei segmenti della società che ad esse fanno riferimento. E’ dunque rivelatore della cultura diffusa nel paese il fatto che nessuno, tra i maggiori partiti politici, si faccia paladino della responsabilità fiscale assumendo una visione di lungo andare dell’interesse nazionale. Ciò significa, a mio parere, che quella che chiamo “cultura del debito” ha radici diffuse: per alcuni si tratta di una pietra filosofale capace di distribuire risorse senza farne pagare il costo ad alcuno, altri – più responsabili – riconoscono che il debito rappresenta un problema ma pensano che la sua soluzione possa essere rimandata a non meglio specificati tempi migliori, “ben altre” essendo le urgenze del momento. Ma quale tempo migliore può esservi, secondo la teoria economica largamente accettata, di quello in cui l’economia riprende a crescere dopo una lunga recessione? Credo che noi economisti abbiamo non poche responsabilità nell’aver fatto nascere, sino almeno dagli anni Settanta, una cultura economica che vede l’indebitamento pubblico come uno dei principali fattori di crescita, una cultura che Keynes, al quale molti si ispirano, avrebbe visto con orrore (rileggiamo, per favore, in proposito il suo ultimo grande lavoro: How to pay for the War). Tra l’altro, questo malinteso ruolo dell’indebitamento pubblico, ha reso e ancor più renderà in futuro impossibile usare la spesa in disavanzo per attutire l’impatto sulla produzione e sull’occupazione di una futura, inevitabile, recessione”.