La narrazione dominante racconta di un’economia globale in accelerazione nel 2017 e ancora più forte nel 2018. Parla di riforme pro crescita in arrivo in America e, ora che ha vinto Macron, anche in Europa. Cita l’inflazione di nuovo a un livello perfetto, né troppo alto né troppo basso, come il migliore supporto per un mercato obbligazionario tranquillo. E cita il clima economico positivo come la migliore legittimazione per un rialzo azionario ordinato, forte e sicuro. Dichiara chiusa la fase antisistema che ha attraversato l’opinione pubblica in Occidente negli ultimi due anni, la considera un effetto ritardato delle difficoltà iniziali nel rimettere in moto l’economia dopo il 2008 e intravede sull’orizzonte una nuova fase di restaurazione della globalizzazione, sia pure riveduta e corretta.
Come tutti i paradigmi interpretativi di successo, questa narrazione riesce a spiegare in modo convincente molto di quello che accade. Come tutti i paradigmi, tuttavia, tende a rimuovere le domande scomode relative a tutto quello che non la conferma. Ad alcune di queste domande dedichiamo la nota di questa settimana.
La prima domanda scomoda riguarda le grandi riforme che Trump e i repubblicani del Congresso hanno promesso nei mesi scorsi all’America. Se queste riforme slittano sempre più in là nel tempo e appaiono sempre più vaghe, perché lo Standard and Poor’s rimane tranquillo sui massimi di tutti i tempi e il Nasdaq segna nuovi massimi quasi tutti i giorni?
La risposta che si dà il mercato è che per il 2017 non abbiamo bisogno delle riforme perché bastano i profitti in miglioramento a giustificare il rialzo. Le riforme verranno utili nel 2018. In questo atteggiamento è evidente la presenza di lenti rosa davanti agli occhi. Gli utili sono sì in crescita, ma solo in alcuni settori e non in misura tale da giustificare completamente il rialzo. Quanto alle riforme, è sempre più chiaro che avremo un taglio delle imposte sulle società ma non una riforma organica e profonda del fisco. Sull’entità di questo taglio avremo un primo numero (non di aliquota, ma di dollari da stanziare a bilancio) da Trump entro fine mese, poi toccherà alla camera bassa indicarne uno suo entro fine giugno e poi tutto passerà al senato. Seguiranno almeno sei mesi di discussioni su come distribuire i tagli e su come eventualmente compensarli con l’abolizione di detrazioni e deduzioni. Il tutto potrà procedere solo se prima si sarà approvata in via definitiva la riforma sanitaria e per questo bisognerà attendere la fine di settembre.
Sulla qualità della riforma peserà lo scambio politico su Fbi e inchiesta sulla Russia, due questioni che compattano i democratici e dividono ulteriormente i repubblicani. Per approvare il successore di Comey senza prolungare l’ostruzionismo oltre l’autunno e alleggerire l’atmosfera da Watergate che si respira oggi a Washington i democratici chiederanno infatti concessioni sul fisco.
La seconda domanda scomoda riguarda la Fed. Se la crescita del 2017 sarà di quello stesso 2 per cento che vediamo dal 2011, perché mai dovremmo accettare di buon grado i quattro rialzi che la Fed ha in programma per quest’anno (per non parlare degli altri tre-quattro in cantiere per il 2018) quando negli anni scorsi la sola ipotesi di un unico rialzo era vista come un rischio grave per economia e borsa? Non stiamo già vedendo le conseguenze di questa nuova politica nell’auto e nella casa, due settori molto sensibili al livello dei tassi?
Per il momento la risposta del mercato è quella classica della prima fase di un ciclo restrittivo. Se la Fed alza i tassi, si dice, vuole dire che l’economia va bene. Per adesso è una risposta sensata, ma non bisogna dimenticare che la Fed alza i tassi anche per poterli abbassare alla prossima recessione. Per farlo è costretta anche lei a indossare gli occhiali rosa e a dire che tutto va bene. È il contrario di quello che diceva un anno fa, quando trovava sempre un problema per potere rinviare il rialzo dei tassi. Curiosamente, la crescita era allora la stessa di oggi.
La terza domanda scomoda riguarda le materie prime. Se la ripresa globale è forte come si dice, perché l’indice delle materie prime si trova oggi sotto il livello dell’8 novembre, il giorno dell’elezione di Trump?
Qui la risposta degli ottimisti appare convincente. Non è la domanda a essere più bassa del previsto, bensì l’offerta a essere ben più ampia. Nel petrolio, ad esempio, il ritorno alla produzione in America è più grande dei tagli di Opec e Russia. Detto questo, il ribasso degli ultimi due mesi delle materie prime è amplificato dallo smantellamento delle posizioni speculative al rialzo costruite durante il Trump rally. Ora il mercato è pulito e può lentamente rimettersi in piedi.
La quarta domanda scomoda riguarda la Cina. Se gli emergenti vanno così bene come si dice e con tutti i soldi che stiamo loro portando, come mai l’indice della principale borsa emergente, quella di Shanghai, ha perso tutto il rialzo di febbraio e marzo e si trova oggi sotto il livello di inizio anno?
Qui le risposte sono due, una economica e una tecnica. La prima, la più importante, ci dice che la Cina ha dato fin troppo impulso, nella seconda metà del 2016, alla sua economia, tanto da battere gli obiettivi di piano. Come sempre accade in questi casi, alcune aree della sua economia si sono surriscaldate e nelle ultime settimane è stato necessario passare dall’acceleratore al freno. Questo si è riflesso sulla borsa di Shanghai, ma va detto che la frenata in corso sarà breve, che il cambio del renminbi è stabile e sotto controllo e che il governo farà il possibile e l’impossibile per arrivare in autunno al congresso con un buon livello di crescita e con mercati finanziari tranquilli.
Quanto ai flussi, va ricordato che i soldi che arrivano in questo periodo da America ed Europa non finiscono alle società cinesi quotate a Shanghai ma a quelle (spesso le stesse) quotate a Hong Kong, che infatti stanno salendo di prezzo. Nonostante il ribasso di Shanghai e il rialzo di Hong Kong, quest’ultima quota ancora a sconto. Questo sconto, da solo, giustifica ulteriori flussi e ulteriori rialzi.
La quinta domanda scomoda riguarda il nuovo panorama politico europeo, che desta nei mercati molte speranze. Perché, ci si può però chiedere, tutto questo ottimismo sulla capacità di Macron e Merkel di riuscire a riformare l’Europa, quando Sarkozy-Merkel e Hollande-Merkel non ci sono riusciti?
La risposta non è certa, ma è indubbio che l’eurozona si trova oggi in una fase ciclica di maggiore forza. Questo, unito a una maggiore disponibilità tedesca a concedere qualcosa (non molto) può dare a Macron più spazio per tagliare la spesa pubblica e liberalizzare il mercato del lavoro. In ogni caso la sfida più grande per lui non sarà sul piano politico ma su quello sociale. La Francia non è avvezza all’austerità.
Un’altra domanda sull’Europa è come mai, con tutto questo ottimismo, l’euro non sia stato capace di superare la soglia di 1.10 contro dollaro. Qui è evidente il ruolo della Bce e la sua volontà politica di mantenere condizioni monetarie e di cambio ultrafavorevoli fino alla conclusione del ciclo elettorale europeo. Sarà quindi solo nel 2018, quindi, che vedremo un rafforzamento dell’euro