In attesa del discorso della Yellen del 14 ottobre, che potrà offrire qualche spunto sui tassi d’interesse e sul rapporto tra euro e dollaro, le vicende elettorali americane sono entrate anche nelle stanze della riunione d’autunno del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale.
Ma non sono state sole le esternazioni di vecchia data di Trump a raccogliere l’attenzione dei convenuti nei palazzi: il crollo della sterlina e il tema del “Brexodous” iniziano a sgretolare le illusioni inglesi di un’uscita trionfale dall’Ue con guadagni facili e rendite di posizione.
Intanto, Christine Lagarde, che ha preso posizione contro il bailout greco, si è vista rinnovare il mandato alla guida del Fmi per altri cinque anni. E non avrebbe potuto essere altrimenti, considerando l’appoggio dei cinesi, che era già stato la chiave di volta per la prima elezione della Lagarde, e adesso si è rafforzato grazie anche al via libera all’entrata dello yuan nel basket delle divise del Fmi.
Non si può poi non notare il moltiplicarsi di ruoli importanti coperti da esponenti cinesi, che la stessa numero uno del Fondo ha elogiato nel suo discorso d’apertura. Un discorso dedicato agli obiettivi dei lavori lungo la Road Map di SDG Sustainable Development Goals 2030, che vede la società civile a fianco dei governi come protagonista, differentemente da quanto fatto in passato con i Millennium Development Goals 2000-2015, dove erano le banche dei Paesi che compongono il Fmi le vere stelle.
Ora però la crisi globale ha indebolito il ruolo delle banche, mentre i Paesi emergenti hanno sottolineato nel corso degli incontri la necessità di un maggior dialogo con entità multinazionali e sovranazionali, chiedendo anche maggiore impegno sugli investimenti per frenare le ondate migratorie, soprattutto dall’Africa.
Quanto ai numeri dell’economia mondiale, dai dati dell’Fmi emergono 152 triliardi di debito e oltre 300 triliardi di asset e prodotti finanziari in circolazione, contro un Pil globale di meno della metà.
La globalizzazione e l’innovazione tecnologica hanno finora aiutato la crescita, ma ora il passo delle riforme è troppo lento e lo scenario europeo vede una rinascita di nazionalismi o meri opportunismi, come nei casi di Ungheria e Polonia, che potrebbero mettere a rischio la coesione e il coordinamento europei, tanto più necessari ora che la questione inglese e l’incognita Deutsche Bank rappresentano due mine vaganti.
Non è mancato nel corso dell’incontro l’intervento di Draghi, che ha sottolineato la scarsità di bond in circolazione che obbligherà la Bce a rivedere il pacchetto di stimoli, forse con un allentamento creditizio. Il banchiere centrale resta però fiducioso sul raggiungimento dei target d’inflazione entro il 2019.
Nel comunicato finale del Fmi si legge poi che, per rafforzare i commerci internazionali – che si sono visibilmente indeboliti – bisognerà mettere mano rapidamente a politiche fiscali mirate. Perché non è spostando il là l’età della pensione o innalzando barriere agli immigrati che l’Ue uscirà da questa ubriacatura post-Brexit.
È necessario modificare il modello economico, perché anche il Qe ha fatto il suo tempo, e mettere mano a misure fiscali oltre che alle riforme mancanti. Negli incontri di Washington non sono mancate pressioni sui tedeschi affinché facciano un uso appropriato del surplus di bilancio per sostenere la domanda e, soprattutto, per iniziare con il piede giusto il mandato del G20 che passa sotto la presidenza tedesca a fine anno.
La notizia è che la Germania si appresta a tagliare le tasse per oltre 6 miliardi di euro l’anno per stimolare la domanda domestica. Il ministro delle Finanze tedesco, Wofgang Schaeuble, ha presentato a Washington il piano fiscale che sarà avviato a gennaio, previo accordo all’interno della Grande Ccoalizione.
Il globo, e non certo Trump, è arrivato nudo alla riunione nella capitale americana, con parecchi nervi scoperti e fragilità evidenti, ma anche con tanta volontà di trovare le soluzioni per coprirsi in vista del rigido inverno.