Ricordate gennaio e febbraio? Il mondo sembrava sfaldarsi. Il renminbi scivolava e, alla macchina del caffè, il discorso cadeva immancabilmente sulle riserve valutarie cinesi. Per quanti mesi sarebbero bastate? Che triste destino aspettava il resto del mondo che si era abituato a sopravvivere esportando in una Cina che stava per implodere? E poi il petrolio, le banche europee, l’Isis.
E, sopra tutto e tutti, un’economia americana che ristagnava e una Fed che, in questo contesto, non trovava di meglio che annunciare quattro rialzi dei tassi per il 2016, altrettanti per il 2017 e altri due nel 2018, per un totale di dieci. Le stelle non promettevano niente di buono. Sono passati sei mesi. Alcune stelle appaiono ancora più ostili. Due paesi europei importanti, la Francia e la Turchia, sono ufficialmente in stato di emergenza e un altro, il Regno Unito, ha mollato gli ormeggi ed è partito verso l’ignoto. Le banche europee hanno lo stesso colorito verdognolo.
L’Eurozona, che ha avuto sei mesi molto buoni (quando tutti, in gennaio, se li aspettavano mediocri) si avvia ad avere sei mesi mediocri (effetto Brexit) quando tutti se li stanno aspettando buoni. Altre stelle, però, si sono riallineate in senso favorevole. Benché il renminbi sia di nuovo debole, le riserve valutarie cinesi sono sugli stessi livelli (altissimi) di gennaio. La borsa di Shanghai è diventata più composta e noiosa delle nostre. La crescita cinese, per quanto drogata, è tornata a superare gli obiettivi ambiziosi del piano quinquennale. Il petrolio, dal canto suo, ha ritrovato un equilibrio.
E sopra tutto e tutti, l’economia americana ha ripreso a crescere (da marzo) dopo sei mesi di stagnazione. I consumi vanno bene, il manifatturiero si è rimesso in movimento, si fabbricano e si vendono più case e i servizi sono in pieno boom. In questo contesto la Fed non trova di meglio che rovesciare in modo spettacolare la sua linea d’azione. I dieci rialzi previsti sono stati tutti congelati, al massimo ce ne sarà uno in dicembre. Ripetiamo, dieci rialzi previsti in gennaio con l’economia a crescita a zero e le borse in caduta libera, zero rialzi oggi con il Pil al 2.5, l’inflazione salita di mezzo punto e Wall Street che esplora ogni giorno nuovi massimi storici.
Che cosa è cambiato? La risposta breve è che le banche centrali sono tornate in stato d’emergenza. Ci erano state tra il 2008 e il 2014 e poi, a un certo punto, avevano pensato che, con la dovuta cautela, si poteva cominciare a normalizzare le cose. Il cammino verso la normalità è stato irregolare, ma la strategia è sempre stata chiara. La Fed ha annunciato il tapering, si è ricreduta, l’ha riannunciato di nuovo e finalmente l’ha fatto. Poi ha annunciato il primo rialzo, si è ricreduta, l’ha riannunciato di nuovo e, dopo mesi di esitazione, si è decisa a farlo. A bond e azioni, che durante lo stato d’emergenza erano stati incoraggiati in tutti i modi a salire di prezzo, è stato intimato lo stop nel maggio 2015 con la famosa chiacchierata tra la Yellen e la Lagarde sui mercati “piuttosto cari”, un altro segno di normalizzazione.
Perfino Europa e Giappone, con la svalutazione dell’euro e dello yen, hanno pensato per qualche tempo di essere fuori dal guado. Poi ci sono stati i sei mesi di stagnazione americana, la paura di gennaio sulla Cina, la delusione sull’Abenomics. Più di recente Brexit, Nizza, la Turchia, le banche europee. Ogni brutta notizia, che in condizioni normali dovrebbe fare salire i Treasuries e scendere le borse, rende più convinte le banche centrali della necessità di rientrare nello stato d’emergenza, quello che piace tanto a tutti gli asset, finanziari e non, e li fa salire tutti insieme.
E poi, diciamolo, c’è il fatto che in gennaio la Clinton aveva in tasca la vittoria mentre oggi le cose sono più incerte. Perché frenare i mercati tornando a parlare di tassi quando li si può lasciare correre verso nuovi massimi proprio nei giorni in cui il Trump che vorrebbe denunciare la debolezza dell’economia viene incoronato candidato ufficiale repubblicano? Ecco allora che la Fed tace, la Banca d’Inghilterra si prepara a tagliare i tassi, a fare credit easing e più Qe, la Cina continua con le misure espansive e la Bce si appresta, per settembre, a tagliare di nuovo e ad allargare il Qe.
Quanto al Giappone, anche se Kuroda si affanna a dire che non ci sarà helicopter money, come vogliamo chiamare una politica in cui il disavanzo pubblico salirà, dopo il rilancio dell’Abenomics, oltre il 7 per cento e la banca centrale lo finanzierà per due terzi? E non è già in pieno helicopter money un paese in cui il debito lordo cresce ogni anno ma quello in mano ai privati continua a calare? Ma non basta. L’allineamento favorevole include altre due stelle. La prima è il posizionamento sulle borse, piuttosto leggero. Si era convinti che 2100-2130 rappresentasse un tetto invalicabile, all’avvicinarsi del quale bisognava solo vendere. E invece lo si è superato e in molti si sono trovati improvvisamente leggeri e costretti a ricoprirsi.
La seconda stella è rappresentata dagli utili. Li si prevedeva deludenti ed eccoli invece migliori delle stime e non solo del solito centesimo simbolico, ma, in parecchi casi, di ben di più. Anche la qualità degli utili appare buona. La tecnologia scopre nella nuvola una nuova miniera d’oro. Le banche aggirano l’erosione dei margini prestando di più. I farmaceutici vanno bene. Questo, per lo meno, è quello che si vede in America, ma è probabile che in Europa sarà lo stesso. Quanto durerà questo allineamento favorevole? Come minimo fino alle elezioni americane di novembre. Da qui a fine anno è anche il tempo necessario per misurare gli effetti di Brexit. Finché non sarà chiaro se l’economia dell’Eurozona sarà in grado di assorbire l’effetto negativo, la Bce preferirà sbagliare per eccesso di prudenza.
Quanto al Giappone, Abe cercherà in tutti i modi di sfruttare la vittoria elettorale per rilanciare la sua politica espansiva. La crescita americana, dal canto suo, si manterrà probabilmente sopra il due per cento. Dopo le elezioni si tornerà a parlare di rialzo dei tassi, anche perché l’inflazione americana, nel frattempo, sarà salita di un altro mezzo punto percentuale. Sempre controcorrente, e spesso nel giusto, Jeffrey Gundlach, per anni rialzista sui bond, sostiene che il bull market obbligazionario è finito. Vedremo. Quello che è certo è che c’è una asimmetria sempre più evidente tra quello che si potrà perdere (molto) nei prossimi anni sui bond lunghi e rischiosi e quello che si potrà guadagnare (poco).
L’azionario sarà probabilmente attrezzato meglio per affrontare un eventuale scenario di inflazione più alta soprattutto se verrà confermata la riaccelerazione degli utili prevista per il 2017. Per il momento ci sembra comunque prudente evitare di rincorrere la borsa americana su questi livelli. Meglio comprare Europa su debolezza, c’è più valore. Nei prossimi mesi, se il dollaro si manterrà forte, ci saranno opportunità interessanti per comperare oro e materie prime. Sui bond, tra i pochi strumenti che offrono valore ci sono i Treasuries decennali sopra l’1.75 per cento (ora siamo all’1.61) e alcuni emergenti in valuta locale.