La meraviglia, osservarono Platone e Aristotele, è all’origine della filosofia. Lo stupore per l’esistenza stessa del mondo e il mistero della sua origine, della sua complessità e del suo funzionamento sono alla base del tentativo della filosofia (e della scienza) di indagare su quello che non capiamo e di trovare risposte convincenti.
L’opposto accade, potremmo dire, nell’indagine storica. Qui non è la meraviglia a motivare lo studio della storia ma è invece lo studio della storia a provocare meraviglia. Come hanno potuto le civiltà e le generazioni che ci hanno preceduto credere in valori che oggi ci paiono incomprensibili o addirittura assurdi? Come hanno potuto non accorgersi degli abissi in cui stavano precipitando? E come hanno potuto risollevarsi e reinventarsi e arrivare fino al nostro presente?
Nel suo piccolo anche lo studio della storia dei mercati offre spunti inesauribili di meraviglia. Come è stato possibile non accorgersi dell’arrivo della grande crisi del 2008? Che cosa stava pensando quell’investitore o speculatore che comperò subprime o azioni al top del grande rialzo 2003-2008? E che cosa aveva in mente chi vendette azioni, qualche mese più tardi, in quel giorno del marzo 2009 in cui l’SP 500 scese fino a 666? Pensava forse che il mondo sarebbe finito di lì a poco?
E, per venire ancora più vicino a noi, quale terribile visione del futuro ha avuto chi ha venduto azioni l’11 febbraio con l’SP 500 a 1810? E quale luminosa visione ha, si potrebbe dire, chi le compra oggi a 2100? Nei mercati c’è una regola non scritta. Non si maramaldeggia mai con chi ha sbagliato, perché quello che appare oggi un errore potrebbe rivelarsi in futuro una decisione saggia con un timing sbagliato. Se fra un anno l’indice dovesse essere a 1600 (il livello che molti ritenevano rapidamente raggiungibile in quei giorni di febbraio) chi ha venduto a 1810 apparirebbe più intelligente di chi sta comprando oggi a 2100. Sui mercati ride bene chi ride ultimo, ma l’ultimo non esiste.
Senza arroganza, quindi, ma con legittima meraviglia ci si può chiedere se siamo stati matti in febbraio o se siamo matti adesso. Quella di febbraio, vorremmo ricordare, non è stata una banale correzione tecnica, il classico temporale che chi sta sui mercati sa che può arrivare in qualsiasi momento. E non è stata nemmeno una crisi circoscritta, per quanto grave, come quella greca di questi anni o quella italiana del 2011. È stata una crisi globale da fine ciclo, da rottura di paradigma. Non necessariamente un collasso di sistema come quello del 2008, ma l’ingresso in una fase nuova, sconosciuta e temibile.
E invece l’inverno del nostro scontento è stato reso primavera gloriosa da un ennesimo Quantitative easing europeo e da qualche ulteriore misura fiscale cinese. Ancora più importanti sono stati la stabilizzazione generale dei cambi (quasi un regime di cambi fissi), il congelamento del rialzo dei tassi americani e il ritorno del petrolio al livello del 18 agosto quando, interessante coincidenza, l’SP 500 stava esattamente dove è oggi, a 2100. Nel suo piccolo, anche il Fondo Atlante ha dato un contributo.
A parte il Fondo Atlante, è come se tutto fosse tornato a nove mesi fa. I mercati e i policy maker hanno provato in gennaio a guardare come era fatto un mondo normalizzato, con tassi americani in rialzo, renminbi in ritracciamento e graduale riduzione delle dosi di stimolo in Cina e in Europa. È stata una specie di anteprima e lo spettacolo che si è presentato davanti agli occhi non è stato per niente rassicurante, il mondo è apparso in tutta la sua fragilità ed è per questo che, dopo qualche esitazione, si è ripristinato lo status quo ante. Siamo tornati agli stimoli monetari e creditizi, si è sospesa non solo la politica di rialzo dei tassi ma anche la discussione intorno alla questione.
I mercati dal canto loro si sono sentiti di nuovo appagati, tranquilli e fiduciosi. Abbiamo riportato l’orologio al 18 agosto, ma nel frattempo qualcosa è comunque cambiato. La disoccupazione ha continuato a scendere non solo in America, ma anche in Europa. Se da noi siamo ancora lontani dal pieno impiego (Germania esclusa), in America siamo ormai a pochi mesi da una ripresa dell’inflazione salariale. Si può stare abbastanza a lungo, anche uno o due anni, sotto la disoccupazione strutturale, ma più a lungo ci si sta senza moderare l’esuberanza del mercato del lavoro, più dura deve essere la frenata successiva in termini di rialzo dei tassi, con conseguente rischio di recessione.
Diamo dunque il benvenuto a questa nuova fase di mercati sereni e di economie in moderata riaccelerazione, ma cerchiamo di non dimenticare che gli stati stabili non esistono e che questa immobilità di tassi e cambi, che tanto piace a borse e bond, non può essere eterna. Se non eterna, dunque, quanto può durare? David Zervos osserva che l’ultima cosa che la Fed desidera è di arrivare sotto le elezioni presidenziali di novembre con una situazione di mercato simile a quella di fine agosto o di gennaio febbraio.
Ci pare un’ipotesi perfettamente ragionevole. Il rialzo dei tassi, per quanto inevitabile, può ancora attendere la fine dell’anno. Nell’ipotesi migliore può anche essere anticipato a giugno, ma solo se i mercati saranno ancora più forti di adesso, se il dollaro sarà restato tranquillo e se i sondaggi della vigilia indicheranno una netta vittoria degli In nel referendum su Brexit. Tra gli altri fattori che potrebbero turbare questa fase di tregua segnaliamo il petrolio e, come già detto, il dollaro. Il greggio, nei prossimi mesi, dovrà evitare di riavvicinarsi ai minimi, ma dovrà anche limitare il suo recupero per non creare ulteriore imbarazzo a una Fed che già sta chiudendo entrambi gli occhi di fronte a una possibile ripresa dell’inflazione salariale.
I fondamentali, fortunatamente, vanno nella direzione di un ulteriore graduale recupero. Quanto ai cambi, si è visto bene, nei due ultimi mesi, quanto la stabilità su livelli ragionevoli sia positiva per i mercati. Un dollaro che non sale più (senza per questo scendere) tranquillizza l’economia e i mercati finanziari cinesi e non danneggia un’Europa che sta ancora godendo dei vantaggi della svalutazione del 2014. L’anello debole del nuovo sistema di cambi semifissi è a questo punto il Giappone, mentre quello forte, anche se non fortissimo, sono gli emergenti, che hanno ancora un modesto spazio di recupero per le loro monete.
In questa fase di limbo rimaniamo investiti in azioni, crediti ed emergenti senza però aumentare le posizioni. Anche se il grosso del recupero è alle spalle, rimane ancora spazio, da qui a 12 mesi, per qualche ulteriore miglioramento.