Se il ministro Calenda abbia fatto bene o male ad interrompere la trattativa sulla cessione al gruppo Arcelor-Mittal e Marcegaglia dell’Ilva di Taranto lo sapremo presto. Quello che è certo, però, è che a quel tavolo il Governo è arrivato del tutto impreparato (di solito le riunioni si preparano) e che il gesto, clamoroso ed inusuale di Calenda di far saltare il tavolo, rischia di ingenerare equivoci e di alimentare false speranze. Un bel guaio, davvero.
Ricapitoliamo i fatti. L’Ilva di Taranto (20 mila addetti circa) sino al 1995 era una azienda pubblica, 100% dello Stato. Nel bene e nel male aveva operato in perfetta simbiosi con la città (che intanto consentiva al quartiere Tamburi di estendersi abusivamente sin sotto lo stabilimento) con le istituzioni locali e regionali e con lo Stato. L’impatto ambientale e le condizioni salariali e normative dei lavoratori erano oggetto di continue trattative e di un costante monitoraggio da parte di innumerevoli enti pubblici, amministrazioni, organizzazioni sindacali e quant’altro.
Come quasi tutte le imprese pubbliche anche l’Ilva di Taranto produceva più perdite che profitti che l’Iri, col consenso del Parlamento, provvedeva a ripianare. Nessuno aveva mai avuto nulla da obbiettare, neppure i magistrati, che erano poi gli stessi che pochi anni dopo avrebbero aggredito l’impresa, passata nel frattempo ai Riva, accusandola niente meno che di disastro ambientale (accusa, questa, non confermata da una sentenza definitiva).
L’Ilva privata era, in realtà, una azienda sana e produttiva, che creava valore. Aveva ovviamente problemi anche molto seri sul fronte ambientale (come tutti gli impianti siderurgici europei, del resto) e su quello sindacale. Ma erano problemi che potevano benissimo essere risolti attraverso opportune trattative e accordi con le autorità competenti e con le organizzazioni sindacali. Tanto è vero che negli anni immediatamente precedenti alla sua chiusura l’Ilva aveva sottoscritto con il Governo e con i sindacati numerosi accordi e protocolli che la impegnavano ad adeguare gli impianti e la gestione del ciclo produttivo alle normative ambientali vigenti.
Quel processo, contrattato col Governo e monitorato dalle autorità competenti, era in corso quando la Procura, sulla base della denuncia di alcune associazioni ambientaliste, decretò la chiusura dell’area a caldo (cioè la morte cerebrale) dello stabilimento.
La tragedia dell’Ilva e di Taranto ha inizio con questa decisione ed è del tutto legittimo chiedersi ancora oggi se quella misura fosse davvero necessaria. Sta di fatto che la minaccia della chiusura dell’area a caldo costrinse il Governo a commissariare l’azienda per evitarne il tracollo, e Il commissariamento, a sua volta, innescò il processo che doveva portare prima all’esproprio e poi fallimento dell’Ilva.
Un fallimento indotto, certo, ma pur sempre un fallimento ed è di questo che non sembrano tenere conto i sindacati, le istituzioni locali e persino i partiti. Rilevare una azienda da una procedura fallimentare non è la stessa cosa che rilevarne una sana da un legittimo proprietario che intende dismetterla. Quando l’Iri e l’Eni privatizzavano le loro imprese di solito offrivano ai potenziali acquirenti molte agevolazioni.
Poteva trattarsi della cessione gratuita degli impianti e dei macchinari, della garanzia di commesse per almeno tre anni e, infine, di una dote da assegnare a ciascun lavoratore che venisse assunto. In cambio all’acquirente si chiedeva di assumere tutti i lavoratori che non avessero altre possibilità e che a quei lavoratori venissero riconosciuti gli stessi benefits aziendali di cui godevano prima. L’accordo, cosi congegnato, veniva poi sottoposto al giudizio dei lavoratori i quali, almeno a mia memoria, quasi mai rifiutavano.
Il caso dell’Ilva di oggi (non quella del ’95) è del tutto diverso e la sua cessione deve necessariamente essere valutata alla luce della validità e credibilità del piano industriale che l’acquirente, selezionato sulla base di una gara, presenta. Questo piano, per essere credibile, non deve prevedere più lavoratori di quelli che può realisticamente occupare, cosi come non dovrebbe prevedere l’obbligo per il nuovo imprenditore di farsi carico di accordi integrativi siglati in precedenza.
Il rispetto del contratto nazionale e delle leggi vigenti è un obbligo non negoziabile e non derogabile, tutto il resto invece si. Si apra, perciò, un tavolo di trattativa fra le parti e si lasci ai nuovi imprenditori e al sindacato di trovare una intesa su queste materie. Il Governo dovrebbe in questa fase astenersi dal dire cosa è o non è accettabile. Se la trattativa dovesse fallire e la mediazione rivelarsi infruttuosa allora ai commissari spetterà l’onere di cercare altre soluzioni. Dovrebbe essere però chiaro a tutti che la via di una ri-nazionalizzazione dell’Ilva, ancorché la Commissione Europea la consentisse, non è percorribile.
Non lo è politicamente e non lo sarebbe neppure sotto il profilo industriale. Ci vogliono capacità manageriali e una visione dei mercati che solo un grande gruppo privato che opera a livello mondiale può avere. È a questa soluzione che si deve lavorare senza che questioni assolutamente marginali prendano la scena e condizionino la trattativa.