Vorrei ricordare che la manovra che stiamo discutendo nasce da un pressante invito da parte della Commissione Europea per correggere i nostri saldi di bilancio dell’anno in corso. La Commissione sembrava preoccupata non tanto e non solo dello scostamento dello 0,2% del deficit, quanto della mancanza di obiettivi chiaramente percepibili di riduzione dell’enorme debito pubblico, debito che rischia di esporci ad una valutazione negativa da parte dei mercati nel momento in cui la Bce dovesse rallentare o eliminare, gli acquisti di titoli statali attualmente in atto con il programma QE.
Quindi i cosìddetti burocrati di Bruxelles si sono mostrati assai più previdenti e lungimiranti di molti politici di casa nostra che li accusano continuamente di una certa “ottusità” burocratica. Il senso politico, e non solo contabile, di questa richiesta era quindi quello di avere da parte nostra segnali chiari sul percorso che vogliamo intraprendere per superare la semi-stagnazione in cui continuiamo a vivacchiare. Si trattava, da un lato di disegnare una traiettoria, graduale ma credibile, per la riduzione del debito pubblico, sostenendo nel contempo la competitività e quindi le potenzialità di crescita del nostro sistema economico.
Abbiamo invece una manovra, ampia ma dai contorni non ben definiti, che probabilmente dovrebbe riuscire a centrare i target contabili, ma che appare nel complesso “inadeguata” a lanciare un messaggio chiaro, non solo ai mercati, ma ai nostri stessi cittadini, su dove vogliamo andare e sul come arrivarci.
Come ben sapete il debito pubblico viene calcolato non solo in cifra assoluta, ma anche in rapporto al PIL. Quindi ci vorrebbero da un lato misure volte a ridurre il debito come il contenimento della spesa pubblica e le privatizzazioni, e dall’altro provvedimenti capaci di aumentare la competitività della nostra economia come ad esempio le liberalizzazioni, il sostegno agli investimenti pubblici e privati e la riduzione degli oneri e degli intralci burocratici. (Per cercare di aumentare il PIL e cioè il denominatore).
Ma nei 67 articoli del decreto sono del tutto marginali i tagli alla spesa pubblica mentre manca del tutto una seria spinta alle privatizzazioni. Si sta ormai affermando una teoria, fatta propria anche da autorevoli esponenti del PD, in base alla quale non si deve privatizzare perché il rendimento delle partecipazioni pubbliche in termini di dividendi incassati, sarebbe superiore al costo del debito dello Stato. E’ possibile che questo sia vero in un momento di tassi particolarmente bassi come l’attuale, ma se il volume del debito è troppo alto la sua sostenibilità nel tempo è comunque a rischio, per cui una graduale e prudente politica di alleggerimento del portafoglio è comunque altamente consigliabile, ed in molti casi, come in nostro, indispensabile.
Per quanto riguarda lo stimolo alla crescita le misure proposte appaiono più dettate da contingenze occasionali che da una visione organica e coerente. In nessun luogo si favorisce la concorrenza, ed anzi in nuovo blocco della piattaforma Flixbus, va in direzione contraria. Le misure di estensione dello split payment sono destinate a danneggiare la liquidità delle imprese in un periodo in cui il credito rimane difficile. Gli investimenti pubblici continuano a diminuire a causa della difficoltà di applicazione del nuovo codice degli appalti, mentre quelli privati si stanno riprendendo in seguito all’entrata in funzione delle norme previste del pacchetto Industria 4.0. La mancanza di infrastrutture pubbliche efficienti frena la competitività dei settori industriali che pure si stanno ben posizionando sui mercati internazionali e che quindi costituiscono un nostro punto di forza che invece, andrebbe sostenuto in ogni modo.
A questo proposito faccio notare che la nostra bilancia commerciale registra un forte attivo e che questo dimostra quanto siano infondate le tesi di coloro che sostengono che ci converrebbe uscire dall’Euro per poter esportare ancora di più grazie alla svalutazione della “nuova lira”. Per contro si potrebbe avere il paradosso che, a parità di altre condizioni, il forte attivo dei nostri conti con l’estero potrebbe spingere la nostra nuova moneta verso una “rivalutazione” e non già una svalutazione. Quest’ultima sarebbe quindi determinata dalla crisi di fiducia e dalla fuga dall’Italia che seguirebbe una nostra unilaterale uscita dall’Euro. Tutti i risparmiatori, anche i piccolissimi, correrebbero in banca a ritirare i propri depositi per nascondere le preziose banconote in Euro sotto il materasso. Così si proteggerebbero dalla svalutazione e dall’inflazione. L’aumento dell’incertezza provocherebbe una drastica contrazione dei consumi. La conseguenza sarebbe il collasso delle banche e di molte imprese. Insomma entreremmo in una crisi epocale provocata da scelte politiche avventurose e tecnicamente errate.
Quanto infine alla norma che vuole reintrodurre una forma di voucher per famiglie e piccole imprese essa dimostra, in primo luogo, quanto sia stata sbagliata la precedente decisione di evitare il referendum cancellando la normativa allora in vigore. La Cgil sta facendo una battaglia tutta politica basata su dati errati che va contro l’interesse dei lavoratori saltuari. Ma la riproposizione di una norma simile in questo contesto non appare idea molto brillante. Insomma due errori non fanno una cosa giusta. Piuttosto sarebbe stato meglio ripristinare la precedente normativa sulla responsabilità civile negli appalti. Oggi come oggi la responsabilità diretta è in prima battuta dello stesso committente per problemi di aziende subfornitrici di cui il capo commessa non può avere tutte le informazioni necessarie per una accurata valutazione della situazione aziendale. Questo eccesso di responsabilità ed il rischio di contenziosi, sta intralciando l’attività delle imprese portando ad un ulteriore freno agli investimenti.
Concludo richiamando la stringente necessità per il nostro paese di mandare segnali non equivoci ai mercati sulla nostra volontà di avviare una graduale riduzione del debito pubblico, sostenendo nel contempo la nostra competitività, in modo da poter raggiungere rapidamente tassi di crescita simili a quelli di altri paesi europei. Non abbiamo tempo da perdere. La politica monetaria ultra-accomodante della Bce non potrà durare a lungo. Bisogna ricordare che negli anni 80, prima della nascita dell’Euro, il peso degli interessi che dovevamo pagare sul PIL raggiunse il 12%. Ora siamo intorno al 4-5%. Una cifra sempre enorme, che limita le nostre possibilità di destinare risorse pubbliche ad investimenti e a politiche di reinserimento delle persone che sono senza lavoro, pur cercandolo attivamente. Ancora una volta rischiamo di doverci accontentare di marginali aggiustamenti rinviando ad altra occasione la definizione di politiche più credibili ed efficaci. Ma non è saggio confidare sempre nello Stellone italico.