Alzare l’Iva per abbattere il cuneo fiscale. Uno scambio equo? Forse. Ci stanno pensando i tecnici di Palazzo Chigi e del Tesoro, alle prese con il Documento di economia e finanza (Def) e con il Programma nazionale di riforme (Pnr) da presentare il mese prossimo. Certo, la novità è ancora solo un’ipotesi ed eventualmente potrebbe vedere la luce soltanto nella legge di Bilancio 2018. Ma se andasse in porto sarebbe un cambiamento di primaria importanza nell’ambito dell’intera politica economica italiana.
In sostanza, si tratterebbe di applicare il principio dei vasi comunicanti alla fiscalità generale: l’idea – scrive oggi Il Messaggero – è ritoccare l’aliquota intermedia dell’Iva dal 10 al 13 per cento e usare almeno parte del gettito aggiuntivo (circa 7 miliardi l’anno) per abbattere la differenza fra il lordo e il netto in busta paga. L’abbattimento del cuneo si concentrerebbe soprattutto – se non esclusivamente – sulla componente dei contributi previdenziali a carico delle aziende (per indurle ad assumere) o dei lavoratori (per stimolarne i consumi). Oppure di entrambi, magari con una distribuzione asimmetrica: due terzi degli sgravi a beneficio dei datori di lavoro e un terzo a vantaggio dei dipendenti.
È stato il premier Paolo Gentiloni, domenica scorsa, ad annunciare l’intenzione del governo di ridurre e il cuneo fiscale: una misura strutturale con un’importante potenziale espansivo, ma sfortunatamente anche molto costosa. Per limitarne l’impatto sui conti pubblici si è già parlato di applicarla esclusivamente alle assunzioni stabili dei giovani, ma se alla fine l’aumento dell’Iva diventasse realtà si aprirebbe uno spazio di manovra nei conti che potrebbe essere utilizzato per allargare il più possibile la platea dei dipendenti (o delle imprese) da includere nel taglio del costo del lavoro.
Ma c’è anche un rovescio della medaglia, tutt’altro che secondario. L’aumento dell’Iva andrebbe esattamente nella direzione opposta rispetto al taglio al cuneo fiscale, perché avrebbe un effetto depressivo sui consumi. E l’aliquota intermedia (o ridotta) si applica a spese vitali come quelle per energia, trasporti, farmaci, carne, pesce, alberghi, bar, ristoranti, cinema e teatri. Al di là delle valutazioni economiche dei tecnici del Tesoro, aumentare di colpo i prezzi di tutti questi prodotti e servizi potrebbe essere una scelta difficile dal punto di vista elettorale, soprattutto in vista della campagna per le politiche che si aprirà nei prossimi mesi.
A ben vedere, però, non servirebbe un’iniziativa autonoma del governo: basterebbe far scattare le clausole di salvaguardia già esistenti. Quelle previste per quest’anno e sterilizzate con l’ultima legge di Bilancio prevedevano non solo l’aumento dell’aliquota ridotta dell’Iva dal 10 al 13 per cento, ma anche l’incremento di quella ordinaria dal 22 al 24 per cento nel 2017 e ancora al 25 per cento nel 2018. Rincari che il governo non ha scongiurato per sempre, ma soltanto rinviato di un anno. E nel 2018 le cose potrebbero andare diversamente, con il blocco dell’aumento solo per l’aliquota più alta.
Di sicuro, lo scambio Iva-cuneo fiscale sarebbe molto gradito all’Ue, che nelle sue raccomandazioni all’Italia ribadisce da anni la necessità di ridurre il prelievo fiscale sulle persone aumentando quello sui consumi e sulle proprietà.