Il governo sta pensando a un taglio del cuneo fiscale fra il 3 e il 5 per cento da realizzare agendo sulla componente dei contributi previdenziali. La novità potrebbe vedere la luce nella prossima manovra di Bilancio, ma i contorni si inizieranno a delineare già il mese prossimo con la presentazione del Documento di economia e finanza (Def) e del Programma nazionale di riforme (Pnr).
Per il momento non ci sono certezze, ma solo indiscrezioni. Domenica scorsa il Presidente del Consiglio aveva confermato l’intenzione del governo d’inserire nella manovra del 2018 una riduzione strutturale della differenza fra la busta paga lorda e quelle netta dei lavoratori dipendenti. Al momento il cuneo fiscale italiano, secondo i calcoli dell’Ocse, si attesta al 49 percento, il quarto più alto in Europa insieme a quello dell’Ungheria, e inferiore soltanto a quelli di Germania (49,4 per cento), Austria (49,5 per cento) e Belgio (55,3 per cento).
Ridurlo non è un’operazione semplice. Innanzitutto bisogna decidere su chi far ricadere il beneficio del taglio: solo sulle imprese (per incentivare le assunzioni) oppure anche sui lavoratori (che così vedrebbero aumentare di qualche decina d’euro il loro salario mensile). Il governo sembra orientato verso la seconda opzione, ma non è detto che la ripartizione sia paritetica. I tecnici del Tesoro e dell’Esecutivo valutano anche la possibilità di concedere due terzi dell’alleggerimento al datore di lavoro e un terzo al lavoratore.
Dal punto di vista dei lavoratori, secondo i calcoli dell’ufficio studi della Uil, quattro punti di cuneo in meno significano per un reddito medio (24 mila euro lordi) 329 euro netti in più all’anno, cioè 25 euro al mese. Un taglio di cinque punti invece porterebbe 411 euro extra, pari a 32 euro al mese. Per arrivare a 38 euro mensili (822 euro l’anno) bisogna ipotizzare invece un meno realistico abbattimento del cuneo fiscale pari al 10 per cento.
Il vero problema però è sul versante dei costi. Secondo il quotidiano La Repubblica, se nel perimetro dell’operazione rientrassero tutti i 10 milioni di lavoratori dipendenti italiani, il taglio potrebbe costare fino a 10 miliardi di euro. Troppo. Per questa ragione l’ipotesi più plausibile sarebbe quella di concentrare le risorse per agevolare l’assunzione a tempo indeterminato dei giovani con il contratto a tutele crescenti introdotto dal Jobs Act. In questo modo il conto finale si ridurrebbe drasticamente, a 1-1,5 miliardi di euro, perché ogni punto di riduzione del costo del lavoro stabile per i nuovi ingressi vale circa 300 milioni di euro.
Non è da escludere però un intervento più impegnativo per tagliare il costo di tutto il lavoro stabile (cioè vecchi e nuovi assunti). I costi però aumenterebbero in maniera esponenziale: un punto di contributi in meno vale nella fase iniziale circa 2-2,5 miliardi, per cui sarebbe davvero complicato trovare queste risorse senza aumentare (e di molto) le entrate fiscali, magari lasciando che l’Iva salga ancora.
Un’altra ipotesi, sostenuta dal Pd, precede la decontribuzione totale per tre anni per il primo impiego, da affiancare, per gli under35, a una “dote formazione” portabile per agevolare nuovi inserimenti occupazionali a seguito di eventuali carriere discontinue.