Quando nel giugno 2015 furono annunciate le prime candidature alla presidenza degli Stati Uniti, la probabilità di vittoria di Donald Trump era pressoché nulla. Poco più di un anno dopo, alla convention di Cleveland, Trump ha ricevuto la nomination del Partito repubblicano. Sul fronte democratico Hillary Clinton, che come nel 2008 all’inizio delle primarie sembrava non avere rivali, ha invece trovato in Bernie Sanders un avversario ostico che l’ha fatta soffrire fino alla convention di fine luglio a Filadelfia.
Da qui all’8 novembre prossimo assisteremo a uno scontro durissimo e senza esclusione di colpi. Comunque vada a finire, comprendere le cause delle difficoltà della Clinton e quelle del successo di Trump consente di comprendere meglio gli Stati Uniti di oggi.
Risposte a paure
La divisione ideologica tra democratici e repubblicani è antica. Tuttavia, mai come negli otto anni di presidenza Obama la politica Usa è stata polarizzata. L’azione politica è stata paralizzata, per la crescente litigiosità tra i partiti e per i contrasti tra Presidente e Congresso. Non a caso negli ultimi anni il Presidente ha fatto varie volte ricorso a decreti. Anche i singoli partiti sono spaccati al loro interno.
La crescente polarizzazione della politica, l’elevato tasso di litigiosità, la deriva giudiziaria, il rischio di blocco delle istituzioni, rafforzano la disaffezione dei cittadini nei confronti della politica. La tentazione è che per risolvere i problemi occorra scavalcare la politica. E Trump si propone come colui che può farlo.
Negli ultimi 15 anni si è sviluppato tra gli statunitensi un senso d’incertezza che genera frustrazione, talvolta paura o addirittura angoscia. Gli episodi di terrorismo e la grave crisi economica del 2008 hanno fortemente contribuito a diffondere questa sensazione. Trump, almeno a parole, offre una risposta a queste ansie.
All’ansia prodotta da globalizzazione e fragilità dell’economia, Trump risponde dicendo “no” agli accordi di libero commercio Tpp e Ttip. Alla paura dell’immigrazione incontrollata – negli Stati Uniti vivono 11 milioni di immigrati illegali – Trump risponde minacciando la costruzione di un muro al confine con il Messico (i cui costi di costruzione dovrebbero peraltro essere sostenuti dai messicani!).
Alla minaccia del terrorismo, Trump risponde proponendo di negare l’ingresso negli Usa ai musulmani. Al senso di frustrazione che deriva dal ridimensionamento del ruolo degli Stati Uniti come potenza internazionale, Trump risponde con uno slogan generico e superficiale ma semplice e immediato: Make America Great Again.
Anche i numerosi e rapidi cambiamenti sociali della società americana negli ultimi decenni hanno contribuito a creare un senso di smarrimento in una parte della popolazione che ha grande difficoltà ad adattarvisi. Temi sociali come l’aborto, i diritti degli omosessuali, il matrimonio gay, la liberalizzazione delle droghe leggere, hanno creato forti contrasti e profonde divisioni. Come spesso accade, le élite hanno accettato con relativa facilità – e anzi spesso promosso – questi cambiamenti. Al contrario una parte della base del Paese fatica ad accettarli. Ciò ha aumentato ulteriormente il già forte senso di scollamento tra élite e cittadini.
Politica o reality show televisivo?
Un’altra spiegazione del successo di Trump sta nella comunicazione. Il candidato repubblicano padroneggia perfettamente lo strumento televisivo. Per 11 anni è stato produttore e conduttore di un reality show di grande successo – The Apprentice – nel quale intervistava giovani in carriera con uno stile diretto e ruvido.
In questa campagna elettorale Trump ha trasferito la cultura e i metodi di comunicazione del reality alla politica. Parla con linguaggio semplice e immediato, populista e spettacolare, politicamente scorretto e spesso volgare. Trump deride gli altri candidati, affibbiando loro soprannomi. Ted Cruz diventa “Ted, the liar” (il bugiardo), Jeb Bush diventa “Bush, the soft” (il molle), Marco Rubio diventa “little Marco” (dove “piccolo” è riferito alla sua gioventù e inesperienza ma anche alla sua bassa statura). I concorrenti politici, ma anche i giornalisti poco compiacenti sono ridicolizzati. Ciò fa scalpore e attira attenzione mediatica.
Le debolezze di Hillary
Hillary Clinton ha certamente molti punti di forza rispetto a Trump. Il più importante è l’esperienza politica. Tuttavia la Clinton ha alcuni punti deboli che potrebbero compromettere la sua corsa verso la Casa Bianca. Tra questi il suo carattere divisivo. Una parte del Paese la ama, un’altra la detesta. Oltre a ciò, Hillary non ispira fiducia a molti elettori. Per diverse ragioni. La principale è l’inchiesta – ormai archiviata – dell’Fbi sulle mail che la Clinton ha inviato da PC personale durante la sua attività di Segretario di Stato.
Un secondo motivo di sfiducia è il suo atteggiamento in occasione dell’attacco al consolato Usa di Bengasi nel settembre del 2012, per il quale resta un’impressione di responsabilità in una vicenda che ha visto in particolare la morte dell’ambasciatore Chris Stevens. Un altro punto debole è costituito dai forti legami con l’establishment. Basta scorrere l’elenco dei finanziatori della Clinton Global Initiative per trovarvi i nomi di banche d’affari, multinazionali e paesi stranieri.
Lo scontro elettorale dei prossimi mesi sarà duro. La Clinton sembra garantire maggiori competenze per svolgere il complesso ruolo di Presidente degli Stati Uniti. Tuttavia sarebbe un grave errore per la candidata democratica sottovalutare l’avversario. Nel corso dell’ultimo anno le primarie dei due partiti hanno mostrato un’America nuova, in parte inaspettata, non sempre facile da decifrare e comprendere. E Trump ha dimostrato, contro ogni attesa, di saperla ascoltare e cavalcare.