Violenti scontri in tutta la Francia per protestare contro il disegno di legge sulla riforma del lavoro, la cosiddetta “legge El Khomri”, che prende il nome dalla ministra che l’ha proposta. Le proteste contro il Jobs Act alla francese si sono di nuovo intensificate negli ultimi cinque giorni, culminando la notte scorsa nella partecipazione all’iniziativa, tenutasi a Parigi, della “Nuit debout” (La “notte in piedi”), alla quale hanno presenziato anche i sindacati e che ha ancora una volta registrato violenze e feriti. In particolare, nel pomeriggio di giovedì, una serie di manifestazioni (che secondo i sindacati hanno coinvolto in tutto il Paese mezzo milione di persone, di cui oltre 60mila a Parigi), sono degenerate in scontri che hanno provocato decine di feriti di cui alcuni gravissimi, sia tra i manifestanti che tra le forze dell’ordine.
La mobilitazione va avanti da settimane (il 31 marzo sono state registrate in piazza 1,2 milioni di persone in tutta la Francia) ed è condotta soprattutto dai giovani, che ritengono la riforma troppo sbilanciata a favore degli imprenditori e orientata al precariato. Il governo ha ancora poco tempo per prendere atto del malcontento popolare: per i deputati oggi è l’ultimo giorno utile per presentare emendamenti, e da martedì inizierà il dibattito in Aula, che si preannuncia infuocato.
Secondo quanto riporta la stampa transalpina, è infatti la stessa maggioranza di governo a suggerire alcune modifiche al testo voluto dalla ministra del Lavoro Myriam El Khomri e approvato più dagli industriali che dai sindacati. Prima di entrare nella battaglia parlamentare, il nuovo “Codice del Lavoro” ha già superato dibattiti e modifiche in commissione. Ecco quali sono i punti più discussi:
– Limitazioni delle restrizioni al diritto delle 11 ore di riposo consecutive: rimarranno alcune restrizioni, ma molte sono state già cancellate.
– I cosiddetti accordi “offensivi”, secondo i quali un’azienda può modificare orari e condizioni di lavoro del dipendente (ma non il salario mensile): saranno possibili solo se firmati da sindacati che rappresentino almeno il 50% della forza lavoro della società. A quel punto, se il lavoratore dovesse rifiutare l’accordo, potrà essere licenziato per giusta causa. Su questo punto sarà battaglia vera, sostiene la stampa.
– Il cosiddetto licenziamento “economico”: secondo il testo auspicato dal ministro del Lavoro, un’impresa di meno di 11 dipendenti potrà ricorrere a licenziamenti se il suo fatturato risulta in calo per più di un trimestre (rispetto all’anno precedente). Non solo: per quelle tra gli 11 e i 50 dipendenti, serviranno due trimestri consecutivi in rosso, che diventano tre per le imprese tra i 51 e i 300 impiegati. Oltre i 300 impiegati, servirebbero invece quattro trimestri consecutivi (un anno) di perdite. Qui si discuterà molto sulla possibilità, che la nuova legge vorrebbe concedere agli imprenditori, di dimostrare le loro difficoltà finanziarie non solo tramite i conti ma anche facendo ricorso ad altri dati.
– L’art. 41, quello che garantisce il trasferimento dei contratti di lavoro in caso di cessione dell’attività: su questo sono anche le aziende a battersi, giudicandolo troppo favorevole ai lavoratori. Tuttavia, è altresì previsto che coloro che rifiuteranno il trasferimento saranno giudicati dimissionari. Per i sindacati questa norma potrebbe favorire i licenziamenti prima della cessione, e per questo motivo in commissione si è arrivati a limitarla alle aziende con almeno 1.000 dipendenti.
– La tassazione dei contratti a tempo determinato (cosiddetti CDD): la ratio della norma è la lotta al precariato rendendo maggiore il costo dei contratti brevi. La maggiore tassazione è prevista sotto forma di contributo al sussidio di disoccupazione. “Una pugnalata”, l’hanno definita gli imprenditori, sostenendo che un contratto a termine “fa parte dell’attività e risponde a esigenze stagionali o di sostituzioni”. Su questo punto si è però esposto in prima persona il premier Manuel Valls, incassando il plauso dei sindacati.