L’economia italiana è faticosamente avviata sulla strada della risalita, dopo una doppia recessione che, dal 2008, ha fatto calare il PIL del 9,1%. Circa la metà di questa diminuzione ha purtroppo carattere persistente e non ciclico, frutto della distruzione di capacità produttiva. Se non si ricostituisce il tessuto manifatturiero del Paese, che ha visto crollare il valore aggiunto del 17,0% tra il 2007 e il 2014 (-660 mila occupati), le prospettive di crescita dell’intera economia resteranno modeste negli anni a venire, schiacciate da una bassa dinamica della produttività.
Dall’industria di trasformazione, infatti, originano gran parte degli sforzi innovativi del sistema produttivo italiano (il 72,1% del totale speso in R&S proviene dalla manifattura), da cui originano guadagni di efficienza a beneficio dell’intero sistema economico. Dal manifatturiero, poi, provengono la quasi totalità dei beni esportabili (l’82,3%) che servono a pagare le bollette energetiche e, in generale, a finanziare le importazioni di un paese povero di risorse naturali come l’Italia. L’importanza della manifattura per l’intera economia italiana appare sottostimata se valutata solo in termini del suo peso diretto sul PIL.
La manifattura è il cuore nevralgico della rete degli scambi intersettoriali, acquistando, più di qualunque altro comparto produttivo, beni e servizi dal resto dell’economia. Per questo motivo, un euro attivato dalla manifattura genera un effetto moltiplicatore quasi doppio sull’output dell’intera economia italiana (1,83 euro), superiore anche a quello delle costruzioni (1,76). In sostanza per ogni euro di aumento della produzione industriale l’effetto sul Pil è quasi doppio.
La politica industriale è indispensabile in questo contesto per spingere l’Italia verso nuove frontiere tecnologiche e guidarla su percorsi di sviluppo a più elevato potenziale, accelerando il recupero del terreno perso negli ultimi anni. Occorre con urgenza favorire la creazione di un sistema forte di relazioni tra imprese, università ed enti di ricerca, capace di generare nuove conoscenze e nuove competenze, attrarre forza lavoro qualificata e porre le basi di una crescita più elevata e sostenibile; Il primo passo della nuova attenzione all’industria e di un disegno della politica industriale sta nel riconoscere che anche interventi legislativi non espressamente indirizzati al manifatturiero hanno degli impatti significativi sul tessuto produttivo del Paese. Di questi impatti bisogna sempre tenere conto. A cominciare dal Documento di Economia e Finanzia (DEF) e dal Piano Nazionale della Ricerca (PNR), entrambi attualmente in discussione in Parlamento.
La crescita attuale è frenata dalla perdita di capacità produttiva L’economia italiana è avviata faticosamente sulla strada della risalita, dopo la doppia recessione che, dal 2008, ha fatto calare il PIL del 9,1%1. Circa la metà di questa diminuzione ha purtroppo carattere persistente e non ciclico, frutto della distruzione di capacità produttiva, che a sua volta si è tradotta in riduzione permanente dell’occupazione, della domanda interna e in ultima analisi del potenziale di crescita del Paese.
Per tornare ai tassi di sviluppo pre-crisi, quindi, non basta sperare in una migliore congiuntura economica a livello europeo e mondiale, perché il sistema produttivo italiano nel frattempo deve scontare gli effetti duraturi delle due recessioni: il difficile reimpiego di molti disoccupati, le cui competenze si sono depauperate stante la prolungata inattività o diventate difficilmente riutilizzabili perché non più richieste dal mercato; la fuga all’estero di una parte rilevante del capitale umano accumulato negli anni, fatta soprattutto di giovani lavoratori scoraggiati dalle poche prospettive occupazionali; la minor capacità di spesa per investimenti delle imprese, esito della redditività crollata ai minimi storici e di una stretta creditizia senza precedenti per profondità e durata, che ne ha intaccato il potenziale competitivo.
Le riforme strutturali avviate nel corso del tempo e soprattutto quelle realizzate e messe in cantiere dall’attuale Governo, rappresentano quindi una leva indispensabile per liberare risorse nel sistema economico da impiegare a fini produttivi, sottraendole a interessi corporativi, a un’eccessiva imposizione fiscale e a procedimenti amministrativi lenti e dagli esiti troppo spesso incerti per le imprese e i cittadini.
Tuttavia, da sole neanche le riforme sono sufficienti. Il tessuto manifatturiero del Paese tra il 2007 e il 2014 ha visto crollare il valore aggiunto del 17,0%, con una perdita di 660 mila occupati (-14,4%)4. Strette da una domanda interna fortemente indebolita dalla perdita di potere d’acquisto delle famiglie, le imprese manifatturiere italiane hanno dovuto anche fronteggiare la crescente concorrenza di prezzo proveniente dalle economie emergenti dell’Est Europa e dalla Cina, non più circoscritta alle sole produzioni a minor contenuto tecnologico.
Se non si ricostituisce il tessuto manifatturiero del Paese le prospettive di crescita dell’intera economia resteranno modeste negli anni a venire, schiacciate da una bassa dinamica della produttività e dal vincolo dei conti con l’estero, che oggi non è stringente soprattutto per la debolezza dei consumi domestici unita al crollo del prezzo del petrolio Il ruolo strategico della manifattura come motore della crescita Dal settore manifatturiero originano, infatti, gran parte dei guadagni di produttività dell’intero sistema economico sia direttamente, attraverso le innovazioni applicate ai suoi processi di trasformazione e ai suoi prodotti, sia indirettamente, attraverso le innovazioni incorporate nei beni manufatti impiegati negli altri comparti. La sua natura di industria di trasformazione consente una crescente specializzazione produttiva delle varie fasi di lavorazione di cui si compone la catena del valore, attivando un processo di progressiva accumulazione delle conoscenze tecnico-produttive (learning by doing) che stimola l’innovazione tecnologica e che è all’origine di rendimenti crescenti di tipo dinamico. Tutto ciò fa sì che un aumento del peso del manifatturiero sul totale dell’economia innalzi il tasso di crescita dell’intero PIL.
Secondo stime preliminari effettuate dal CSC (Centro Studi Confindustria), nei paesi avanzati un maggior peso del manifatturiero sull’economia dell’1% è associato a un innalzamento della crescita annua del PIL dello 0,5%6. Non è un caso che sia la manifattura, non solo in Italia, a realizzare la quota più significativa della spesa in ricerca e sviluppo (R&S) sostenuta dal settore privato7. Nel Paese tale quota è pari al 72,1% secondo i dati Eurostat relativi all’anno 2013, in Germania arriva addirittura all’86,0%. Se cresce la domanda di beni manufatti, si stimola quindi una sempre maggiore specializzazione della stessa manifattura che, mediante i guadagni di produttività, genera un maggior reddito disponibile a beneficio dell’intera economia. Ma la maggiore domanda di beni manufatti innesca anche un effetto moltiplicatore sugli altri settori d’attività, attraverso le strette interconnessioni produttive, giacché l’attività di trasformazione richiede l’utilizzo di materie prime e input intermedi e una quantità crescente di servizi specializzati, per i quali altrimenti non ci sarebbe mercato.
Questo implica che uno shock al sistema manifatturiero italiano si propaga con forza al resto dell’economia, attraverso una variazione significativa nella domanda di beni e servizi che esso attiva, direttamente e indirettamente. Le stime del CSC indicano a questo proposito che per ogni variazione nella produzione finale di beni manufatti di 1 euro si genera una variazione quasi doppia nell’output dell’intera economia, ossia di 1,83 euro, grazie agli effetti a cascata indotti dalla maggiore domanda di input intermedi, più della metà dei quali non prodotti dal manifatturiero.
Come termine di confronto, l’effetto moltiplicatore di una maggiore produzione finale nelle utilities è pari a 1,34, quello registrato nelle telecomunicazioni e nella finanza è intorno all’1,60, mentre nelle costruzioni raggiunge l’1,768. La manifattura, quindi, nonostante pesi sul totale dell’economia italiana per circa un sesto del valore aggiunto (il 15,4% nel 20149), rappresenta il nodo centrale degli scambi tra i diversi settori, attirando la quota maggiore di input da tutti gli altri comparti produttivi. Considerando anche la quota di valore aggiunto che è attivata dalla manifattura nel resto del sistema produttivo, il peso sul PIL direttamente e indirettamente riconducibile all’industria di trasformazione cresce a oltre il 23%10.
Oltre che per il suo ruolo nevralgico come motore dell’innovazione per l’intero sistema economico, la manifattura riveste un’importanza strategica anche in virtù del fatto che, per un paese povero di risorse naturali come l’Italia, consente, grazie alle sue esportazioni, di pagare quello che si acquista all’estero, in un sistema economico sempre più integrato internazionalmente. Le esportazioni manifatturiere italiane hanno un peso sull’export totale stimato all’82,3%, poco meno di quanto registrato in Germania. L’integrazione nei mercati internazionali, tuttavia, non spinge di per sé tutte le economie nella direzione di una maggiore forza industriale. L’economia, infatti, tende, in assenza di correttivi, a svilupparsi spontaneamente secondo la logica dei vantaggi comparati esistenti in un dato momento, ossia in ragione delle competenze già acquisite, e non di quelle potenzialmente acquisibili. Così, la crescente competizione su scala globale può favorire processi di upgrading tecnologico e qualitativo dei prodotti, generando uno spostamento verso l’alto all’interno della catena del valore globale, ma anche esacerbare la debolezza relativa di un paese in determinati comparti, determinandone l’uscita.
L’urgenza di un piano per reindustrializzare l’Italia. Nell’attuale contesto di sofferenza di una parte rilevante sistema produttivo italiano, la politica industriale è quindi indispensabile per spingere il Paese verso nuove frontiere tecnologiche e guidare l’economia su percorsi di crescita a più elevato potenziale, accelerando il recupero del terreno perso nel corso degli ultimi anni. Una politica industriale che, come oramai ampiamente discusso anche in letteratura economica e testimoniato dalle esperienze internazionali raccolte in tutti i principali paesi avanzati, deve essere intesa innanzitutto come strumento per incentivare e mettere a sistema gli sforzi innovativi di imprese, enti di ricerca e università lungo tutta la filiera ricerca-innovazione-prodotto, così da favorire la generazione di nuove conoscenze ancorate sul territorio e attrarre forza lavoro qualificata.
E che deve guardare al medio-lungo periodo per individuare le traiettorie del cambiamento a livello globale su cui far convergere gli sforzi del pubblico e del privato, con un’attenzione non solo alle competenze produttive già detenute ma anche a quelle da costruire per intercettare i nuovi bisogni dei consumatori e i cambiamenti tecnologici in atto. Se attuata, essa contribuirebbe in modo decisivo a superare l’eccessiva frammentazione dell’attuale processo di generazione delle innovazioni industriali del Paese. Un processo che si caratterizza per una moltitudine di realtà produttive poco connesse tra di loro e raramente supportate dal sistema pubblico della ricerca, il quale a sua volta manca di una regia unica.
L’Italia, infatti, presenta un’incidenza di imprese manifatturiere innovative tra le più alte d’Europa, ma questi sforzi innovativi avvengono di rado grazie alla cooperazione con altri soggetti: solo il 10,6% delle imprese innovative italiane collabora con operatori nazionali nei processi di innovazione, contro il 23,5 di quelle tedesche e il 31,2% di quelle francesi. Percentuale analoga per le cooperazioni con soggetti appartenenti all’Unione europea, mentre sono pressoché inesistenti quelle internazionali (lo 0,9%). Pertanto, l’alta propensione all’innovazione di cui l’Italia dispone raramente viene messa a sistema, privando così la sua economia di importanti spillover di conoscenza, che avrebbero effetti moltiplicatori sulla dinamica della produttività delle imprese appartenenti ad una stessa filiera o interessate trasversalmente dalle stesse tecnologie di produzione.
Inoltre, tra le imprese manifatturiere italiane che hanno realizzato un’innovazione di prodotto o di processo in cooperazione con soggetti terzi, solo il 18,5% del totale ha dichiarato di aver ricevuto un contributo decisivo dalle università e ancor più limitato è il peso strategico dei centri di ricerca pubblici e privati (il 4,0% dei casi). Netto il ritardo del Paese nel confronto con la Germania, che intorno alle collaborazioni di ricerca pubblico-private ha costruito una efficace politica di supporto all’industria: le università rappresentano in questo caso il partner più importante per generare innovazione, con una quota del 30,6%, mentre i centri di ricerca pubblici e privati pesano per il 16,0% dei casi.
C’è quindi urgenza, dato il forte ritardo già accumulato rispetto ai partner europei e globali, di pianificare una strategia nazionale di reindustrializzazione del Paese che punti a ricostruire su nuove basi tecnologiche una parte importante del tessuto manifatturiero italiano, da affiancare alle tante eccellenze industriali già presenti che sono riuscite a resistere ai lunghi anni di recessione, rafforzando la propria presenza internazionale e puntando sull’innovazione continua dei prodotti e dei processi per battere la concorrenza.
Senza dimenticare che anche interventi legislativi in apparenza senza nulla a che fare con l’industria possono avere degli impatti significativi sul tessuto manifatturiero del Paese. Di questi impatti bisogna sempre tenere conto. A cominciare dal Documento di Economia e Finanzia (DEF) e dal Piano Nazionale della Ricerca (PNR), entrambi attualmente in discussione in Parlamento.
Allegati: Nota CSC, Manifattura e PIL