Un“carnival-cum-horror-show”, lo ha definito il Guardian. A metà tra il ridicolo e l’orrendo, Donald Trump continua la sua scalata alla nomination repubblicana per candidarsi alle elezioni presidenziali di novembre: l’ultima dichiarazione scandalosa, in ordine cronologico, è quella secondo la quale “le donne che ricorrono all’aborto andrebbero punite”. Il front-runner repubblicano ha poi riconosciuto di “essersi espresso male”, dopo la condanna bipartisan e l’indignazione dell’opinione pubblica maggioritaria.
Oggi si vota solo nel Wisconsin, una tranquilla tappa di avvicinamento alla convention di luglio che vale in tutto 42 delegati, la maggior parte dei quali da assegnare al vincitore: il magnate 70enne al momento conduce la corsa con 735 delegati conquistati, contro i 461 dell’avversario Ted Cruz. Si vince a 1.237: se arriva a quella quota, nessuno potrà negare all’uomo che sta mettendo in imbarazzo il Paese più influente del pianeta di giocarsi la sfida per la Casa Bianca. Più che oggi, dove c’è relativamente poco in palio, la partita vera si giocherà da metà mese in avanti: il 19 si vota nello stato di New York, dove Trump è dato in grande ascesa di consensi, e la settimana successiva in una cinquina di Stati della East Coast, in particolare in Pennsylvania. Dopodichè, Trump avrebbe la strada praticamente spianata fino al voto decisivo della California, il 7 giugno (quello giorno si voterà anche nel New Jersey e nel New Mexico, Stato lungo il cui confine il candidato repubblicano vorrebbe erigere un muro per isolarlo dal Messico).
Il New York Times lo ha definito un “candidato-zombie”: morto (nel senso sgradito, ripudiato dal suo stesso partito) ma inarrestabile, proprio come i morti viventi. Ma lo stesso quotidiano Usa spiega come Trump potrebbe ancora non vincere: “Quando gli elettori repubblicani votano alle primarie, stanno votando per eleggere i delegati che poi eleggeranno il candidato presidente alla convention di luglio”, spiega il NYT, ricordando però che ogni Stato ha un suo regolamento in merito al vincolo di questo voto, e soprattutto che in linea di massima solo nelle prime due votazioni (in alcuni casi solo nella prima) il delegato è vincolato al candidato nella cui lista è stato eletto. “Dopo, se non si raggiunge la maggioranza di 1.237 delegati, ognuno è libero di esprimere un voto diverso”: e poiché solo in alcuni Stati i delegati sono scelti direttamente da Trump (è così in California ma non in uno Stato importante come il Texas, per esempio), e in altri vengono invece inseriti in una lista decisa dal partito, è pressochè sicuro che l’establishment repubblicano, dalla terza votazione in poi, suggerisca ai propri delegati di dirottare il voto su colui che finirà più vicino a Trump alla fine delle primarie (al momento è Cruz, ma potrebbe rimontare John Kasich).
Scelta che potranno fare anche i delegati dei candidati che si sono ritirati, come Marco Rubio, che ne porta in dote ben 171: funziona così, ad esempio, in Alabama. In altri Stati, come in Pennsylvania (dove si deve ancora votare), i delegati sono addirittura liberi di scegliere il loro voto sin dalla prima votazione. C’è però un’ulteriore incognita: con una decisione che può essere presa dalla maggioranza semplice dei delegati, purchè prima che la convention abbia inizio, le regole appena descritte possono essere cambiate. A favore o a sfavore di Trump, sarà la maggioranza a deciderlo. Al momento comunque la campagna elettorale repubblicana si riduce a questo: Cruz non sta facendo granchè per arginare lo tsumani scatenato dal “Berlusconi d’America” (che però, in certe dichiarazioni, ricorda di più il populismo di Salvini o Grillo), tant’è vero che l’Economist lo ha già stroncato definendolo una “falsa speranza, uno strisciante texano che sta sperperando una grande occasione”.
DEMOCRATICI – Entra nel vivo anche lo scontro sul fronte democratico, dove però non ci sono zombie da abbattere ma si discute animatamente di contenuti. Il socialista Bernie Sanders continua ad avere appeal e rimane in piena corsa per la nomination, anche se in testa c’è sempre l’ex First Lady ed ex segretario di Stato nel primo mandato di Obama, Hillary Clinton: l’abaco dice al momento 1.243 a 980 (si vince a 2.383). Alla vigilia del voto nel Wisconsin si parla molto di industria e occupazione: “Le disastrose politiche commerciali – ha attaccato Sanders, che in vista del voto chiave a New York ha parlato a una folla di 20.000 persone nel Bronx -, in particolare il NAFTA (il North American Free Trade Agreement, ovvero il libero scambio con Canada e Messico, ndr), e i rapporti con la concorrenza cinese gestiti in questo modo hanno portato alla chiusura di 60.000 fabbriche nel Paese e alla perdita di 4,7 milioni di posti di lavoro nell’industria, dal 2001: 113.000 di questi posti sono stati persi solo nel Wisconsin”. Stato del midwest manifatturiero, il Wisconsin ha una popolazione complessiva di meno di 6 milioni di abitanti ed è famoso per la produzione di birra.
In questo, come nella maggior parte degli Stati del Nord, a maggioranza di popolazione bianca e a vocazione più industriale, il consenso per Sanders supera quello di Hillary, che invece ha dominato negli Stati del Sud, che hanno una percentuale più alta di afro-americani e di latinos e che vedono nella moglie dell’ex presidente Clinton la continuità con Obama, primo presidente nero della storia e beniamino delle minoranze. Uno dei temi di questo rush finale è proprio questo: negli Stati del Sud si è votato quasi ovunque, in quelli del Nord un po’ meno, e manca buona parte della West Coast, dove la popolazione più giovane e istruita potrebbe ancora favorire Sanders, che proprio a marzo ha stabilito il proprio record di raccolta fondi in campagna elettorale: 44 milioni di dollari, “di cui zero dalle lobby del petrolio”, ha annunciato con orgoglio, ricordando che la sua avversaria dai “poteri forti delle energie fossili” ha ricevuto quasi 2 milioni di dollari.
Il rilancio dell’industria e dell’occupazione è pertanto il tema più caldo sul tavolo: sono lontani i tempi in cui gli Stati Uniti esportavano il concetto di middle class e di eguaglianza sociale. L’economia di Wall Street e della Silicon Valley ha creato fortune per pochissimi e disgregato il tessuto imprenditoriale del Paese, sostengono i maggiori economisti contemporanei. Clinton, per rispondere al piano Sanders da mille miliardi in cinque anni per ammodernare le infrastrutture e creare 13 milioni di impieghi, ha risposto con un piano più moderato da 10 miliardi. Per finanziarli, il primo ha in mente una lotta senza quartiere all’evasione e ai paradisi fiscali (proprio domenica è stata pubblicata l’inchiesta Panama Papers), oltre a una maggiore tassazione sui redditi più alti e sulle rendite finanziarie, mentre la seconda vorrebbe innanzitutto far restare in America le aziende che vorrebbero delocalizzare, facendo venire meno a queste ultime le agevolazioni fiscali che gli spetterebbero.
Altro tema dibattuto in questi giorni è uno dei cavalli di battaglia dello sfidante socialista: il college gratuito. Questa battaglia di civiltà, che vorrebbe rifare dell’America la terra delle grandi occasioni proprio nel periodo storico che maggiormente ha visto crescere le disuguaglianze economiche e sociali, viene rilanciata anche da Hillary: “Dobbiamo offrire una formazione di qualità a prezzi accessibili e alla portata di tutti, senza che gli studenti siano costretti a indebitarsi per iscriversi al college”, ha scritto ieri l’ex senatrice dello stato di New York sul proprio profilo Twitter. Sanders ha invece un piano da 75 miliardi di dollari: “Non è un’idea così radicale – ha detto -. La stessa Germania l’anno scorso ha eliminato le tasse universitarie perché ha notato che la retta di 1.300 euro annui scoraggiava molti ragazzi dall’iscriversi. Il Cile sta per fare lo stesso, per non parlare dei Paesi scandinavi”.
Il Nord Europa è spesso il parametro di riferimento del socialismo sandersiano, che piace ai giovani proprio per questo: non richiama i fallimenti dell’Unione sovietica e neanche la dittatoriale economia cinese, ma le “prosperose e egualitarie democrazie scandinave”, aveva commentato qualche mese fa il Washington Post. “In realtà qualcuno già lo fa anche negli States: penso all’università della California o a quella della città di New York, dove da decenni le tasse sono molto accessibili. Dobbiamo garantire questo diritto ovunque, agli studenti più meritevoli”. Un socialista o una donna alla Casa Bianca: sarebbe in ogni caso una prima volta.