Dopo anni di discussione, la sera di mercoledì 11 febbraio Stato e Regioni hanno trovato l’accordo sul piano per creare in Italia una rete nazionale (e pubblica) di banda ultralarga in fibra ottica. L’infrastruttura – che dovrebbe essere ultimata nel 2020 – costerà in tutto 3,5 miliardi di euro e toccherà 7.300 Comuni nelle zone “a fallimento di mercato”, quelle in cui gli operatori privati hanno già detto di non voler investire.
La costruzione sarà a carico dello Stato – che ha già affidato l’incarico a Infratel, società al 100% di Invitalia, a sua volta controllata dal Tesoro –, ma la proprietà passerà poi alle Regioni. Gli operatori privati potranno affittare la rete in affitto (probabilmente già dal 2017) per offrire i propri servizi ai circa 18 milioni di italiani raggiunti dalla nuova rete.
L’intesa è stata raggiunta al termine di una lunga riunione della Commissione Agenda Digitale presso la Conferenza delle Regioni, che oggi dovrà ratificare l’intesa. Dopo di che, il piano sarà notificato alla Commissione europea.
Il punto più controverso riguardava la ripartizione dei fondi: 1,557 miliardi di euro nazionali (Fondo Sviluppo e Coesione) più 1,6 miliardi di euro di fondi europei regionali, cui si aggiungono 233 milioni di euro di fondi Pon (il Programma operativo nazionale approvato da Bruxelles) in cinque Regioni meridionali, esclusa la Sardegna.
Gli 1,6 miliardi di euro erano disponibili già nel 2014, ma per utilizzarli era necessario un piano nazionale condiviso, così da evitare sprechi da parte delle singole amministrazioni locali. In particolare, la questione più controversa aveva a che fare con la copertura del Centro-Nord, rimasto indietro sulla fibra, dal momento che i fondi pubblici (in base alla normativa europea) hanno finora privilegiato il Sud.
Il Governo intende utilizzare la maggior parte dei nuovi fondi proprio per il Centro-Nord, ma inizialmente il progetto è stato osteggiato da alcune Regioni del Sud, poiché anche il nuovo fondo sviluppo e coesione prevede che l’80% delle risorse sia destinato al Meridione.
“La soluzione trovata – spiega a Repubblica.it Paolo Panontin, presidente della Commissione Agenda Digitale – è che il Sud anticipa queste risorse al Centro-Nord, nell’immediato, per fare la banda ultra larga. Ma il Governo si impegna a restituirle più avanti nell’ambito del più ampio Fondo sviluppo e coesione da 34 miliardi di euro (dove la banda larga è solo uno dei tanti settori)”.
Soddisfazione anche da parte del presidente della Conferenza delle Regioni, Stefano Bonaccini: “C’è un gap in termini di modernizzazione in questo settore che va assolutamente colmato. La crescita digitale – ha aggiunto – è uno dei presupposti di ogni moderna democrazia ed è una precondizione per migliorare la qualità e la diffusione dell’informazione e della partecipazione, e incentivare lo sviluppo”.
“Con questo accordo – ha proseguito Bonaccini – sarà immediatamente disponibile più di un miliardo e mezzo, tendendo conto dei fabbisogni, per affrontare le esigenze delle strutturazione della rete soprattutto nella cosi dette ‘aree bianche’, ovvero in quei territori cosiddetti ‘a rischio fallimento’, ovvero poco attrattivi per gli operatori, creando così le condizioni più favorevoli allo sviluppo integrato delle infrastrutture di telecomunicazione fisse e mobili a tutto vantaggio dei cittadini e delle nostre imprese”.
“La Conferenza Stato-Regioni approva l’accordo: 3,5 miliardi per la banda ultralarga in 7.300 comuni. Finalmente una strategia nazionale, non la somma di piani territoriali”. Lo ha scritto su Twitter il sottosegretario allo Sviluppo economico con delega alle tlc, Antonello Giacomelli, commentando l’accordo raggiunto oggi.
Un risultato “importante, perché consentirebbe di far partire parte del piano del governo che riguarda le aree bianche a fallimento di mercato”, il commento invece di Franco Bassanini, presidente di Metroweb, spiegando che proprio per le aree a fallimento di mercato “solo l’apporto di importanti risorse pubbliche come sono i fondi Fesr e Feasr può consentire di finanziare una rete infrastrutturale di nuova generazione che gli investitori privati non hanno interesse a finanziare perché il ritorno sugli investimenti è del tutto insufficiente”.