I fautori del ricorso alle primarie per scegliere il candidato sindaco per Roma, Milano e Napoli dovrebbero riflettere bene sulla reale efficacia, oltre che sul carattere davvero democratico, di questo strumento. Nella stragrande maggioranza dei casi (le eccezioni ovviamente ci sono ma sono, appunto, delle eccezioni) le primarie hanno selezionato degli incapaci (Marino), degli outsiders megalomani e autoreferenziali (De Magistris a Napoli ed Emiliano in Puglia), degli autentici marziani (Doria a Genova) oppure delle tragiche macchiette come Crocetta in Sicilia. In tutti questi casi (e in tanti altri consimili) a soffrire per queste scelte sbagliate compiute con le primarie sono state le amministrazioni e i cittadini.
Anche nella scelta del candidato premier non sempre le primarie hanno aiutato a compiere quella giusta. Il caso più recente e clamoroso è stato quello di Pierluigi Bersani che il “popolo democratico” ha preferito a Matteo Renzi , salvo poi doverlo scaricare di fronte al disastro politico da lui stesso provocato .
Ovviamente non è affatto detto che il vecchio metodo, fatto di ampie consultazioni, di faticose assemblee di sezione, di estenuanti riunioni degli organismi dirigenti e di ripetute votazioni al loro interno, avrebbe evitato simili disastri. E’ però molto probabile che le cose sarebbero andate meglio. Naturalmente quel metodo non può essere riproposto oggi per la semplice ragione che non esistono più né i Partiti né le strutture organizzative attraverso le quali venivano prima formati e poi selezionati i candidati da proporre come amministratori, deputati o sindaci. Una cosa però è certa: le primarie, che quel metodo avrebbero dovuto sostituire, non funzionano e se non vengono modificate rischiano di consegnare il Paese in mano a degli incapaci o, peggio, a degli avventurieri.
PERCHÉ LE PRIMARIE NON FUNZIONANO?
Innanzitutto, perché non sono regolamentate. Non è chiaro, ad esempio, chi può partecipare al voto: se gli iscritti soltanto o anche i simpatizzanti e i potenziali elettori ovvero se a votare può essere chiunque lo desideri. Non è nemmeno chiaro se siano obbligatorie oppure facoltative. Non è, infine, chiaro chi davvero le gestisce e, soprattutto, chi controlla il loro svolgimento e ne garantisce la legittimità (il caso di Napoli e quello della Liguria qualche dubbio lo hanno sollevato).
In secondo luogo, le primarie non funzionano perché i Partiti, che avevano fra i loro compiti quello di formare e selezionare gli amministratori pubblici, i deputati e gli uomini di governo , oggi non esistono più. Nessuno degli attuali partiti dispone di un bacino di militanti, di iscritti o di simpatizzanti dal quale potere trarre, con metodo democratico e trasparente, i quadri da sperimentare nella gestione della cosa pubblica. Questi quadri oggi si formano sempre di più al di fuori dei Partiti. Si formano nell’Industria, nella Finanza o nei Servizi, nelle Università e nelle molte associazioni. Non è detto che questo sia un male, anzi! Ma lo può diventare se la selezione dei quadri avviene esclusivamente per affiliazione a questo o quel leader emergente piuttosto che attraverso l’incontro con la Politica intesa, questa, nella sua dimensione culturale ed organizzativa più alta (quella che Gramsci chiamava la Grande Politica).
E qui sta la terza ragione del cattivo funzionamento delle primarie. Le primarie non stimolano (e non potrebbero farlo) la definizione da parte dei candidati di una piattaforma politico-programmatica davvero adeguata. Un programma elettorale serio e credibile richiede infatti tempo e competenze per essere definito. Comporta un lavoro di lunga lena che deve coinvolgere molte persone. Non può essere il prodotto di un singolo o del suo solo staff, ma deve essere necessariamente il frutto del lavoro di una più ampia comunità politica e culturale, cioè di un Partito, sia pure di tipo nuovo. Se manca questa “Comunità” mancano anche i giusti contrappesi al protagonismo o alla megalomania dei candidati alle primarie.
D’altronde, là dove al metodo delle primarie si fa ricorso, come negli Usa, al Presidente eletto fanno da contrappeso, oltre alla Corte Suprema, anche il Congresso (cioè i Deputati), il Senato e, non da ultimo, gli stessi Partiti. In Italia questo equilibrio ancora non c’è.
Nei prossimi mesi i Partiti dovranno sciogliere il nodo dei candidati sindaci a Milano, Roma e Napoli. In nessuno di questi casi le Primarie di partito (ma anche quelle di coalizione) sembrano essere in grado di selezionare le persone giuste per quel ruolo. Nessuno dei maggiori partiti (chi più chi meno) dispone al proprio interno di figure che abbiano la competenza e le capacità necessarie per governare quelle città. Tutti dovranno necessariamente guardare al di fuori del loro recinto. E’ del tutto evidente che se ad essere scelti fossero, per fare solo un esempio, personalità come Sala a Milano o Malagò a Roma, l’idea di sottoporli al voto delle primarie non sarebbe praticabile trattandosi oltretutto di personalità indipendenti.
I partiti in quel caso dovrebbero fare un passo indietro e proporsi di appoggiare quelle candidature affiancando la loro lista. Ciò , naturalmente, dovrà avvenire attraverso un ampio dibattito all’interno dei partiti e dei loro organismi dirigenti. Sarà insomma necessaria una chiara assunzione di responsabilità da parte delle diverse forze politiche sanzionata anche dal voto dei loro organismi dirigenti oltre che, se lo vorranno, da quello dei loro iscritti e simpatizzanti. E’ questa e non quella delle primarie la via da seguire oggi per dare alle grandi città italiane guide autorevoli e capaci. La regolamentazione del sistema delle primarie e la loro eventuale istituzionalizzazione potranno e dovranno essere discusse e decise dopo nel quadro di una più generale ed organica riforma del sistema politico ed istituzionale.