Tutto è stato scritto sul possibile rialzo dei tassi americani. Che sarà di un quarto di punto oppure, creativamente, di un ottavo. Che farà crollare i mercati emergenti e riporterà i nostri sui minimi del 25 agosto oppure che sarà accolto da un colossale sbadiglio, se non addirittura da un rialzo di sollievo per esserci tolti il pensiero. Non abbiamo molto da aggiungere al dibattito e ci iscriviamo al partito di quelli che pensano che i mercati siano a questo punto preparati a tutto non solo psicologicamente ma anche in termini di posizionamento di portafoglio. Chi doveva alleggerire lo ha già fatto e chi è restato investito si ritiene evidentemente pronto ad assorbire qualsiasi decisione la Fed voglia prendere. Alla fine, dunque, il rallentamento della Cina e degli emergenti verrà riconciliato con il buon andamento di America ed Europa, mentre l’eventuale rialzo dei tassi americani verrà visto come l’avvio di un lento processo di normalizzazione e non come un colpo mortale inferto a una crescita debole.
Ricordiamoci, per mantenere il senso delle proporzioni, che i tassi a breve americani verranno comunque mantenuti sotto il livello dell’inflazione fino alla fine del 2017 e probabilmente anche oltre. La Fed, in altre parole, porterà i tassi al due per cento fra due anni solo se l’inflazione, nel frattempo, sarà salita oltre il due per cento. Ma volgiamo oro lo sguardo verso il futuro profondo. Ce ne dà l’opportunità uno studio di McKinsey (Playing To Win. The New Global Competition For Corporate Profits) appena pubblicato e disponibile gratuitamente in rete. Si tratta di un lavoro che ha richiesto l’impegno di decine di specialisti e l’utilizzo di una banca dati globale che include la storia e le stime relative a quasi 30mila società impregnate in tutti i settori produttivi e in tutte le aree geografiche. Quella di McKinsey è una grande storia dei profitti dal 1980 al 2025. È ricca di dati, ma è soprattutto una fonte preziosa di ragionamenti e di stimoli.
Le conclusioni a cui arriva erano nell’aria da qualche tempo ma nessuno, finora, si era preso l’impegno di modellizzare e quantificare ipotesi che erano restate al livello di intuizioni. La tesi principale dello studio, il pugno nello stomaco, è che va fatta una netta separazione tra la storia gloriosa dei profitti dal 1980 a oggi e quella che si prospetta per i prossimi dieci anni. Il monte profitti globale, che nel 1980 ammontava a 2.0 trilioni di dollari e che a fine 2013 era stato di 7.2 trilioni, sarà a fine 2025 di 8.6 trilioni. I dollari sono sempre quelli del 2013 e quindi a valore costante, senza le distorsioni provocate dall’inflazione. I profitti misurati sono gli utili operativi netti dopo gli aggiustamenti del carico fiscale (Noplat), ma i dati su Ebitda e Ebit, per quanto diversi nelle proporzioni, vanno comunque nella stessa direzione. Al di là degli aspetti tecnici, la storia è quella dell’eccezionalità e dell’irripetibilità di quello che è avvenuto dal 1980 a oggi, una vera e propria esplosione dei margini di profitto e, ancora di più, degli utili netti finali. Questa fase storica è già terminata due anni fa per quanto riguarda i margini e terminerà nel prossimo futuro per gli utili finali, destinati a crescere, nei prossimi dieci anni, a un modesto tasso annuale composto dell’1.5 per cento.
Si noti che McKinsey non parte da ipotesi pessimistiche sul futuro della crescita globale. I ricavi delle 30mila società analizzate, infatti, cresceranno in questi prossimi dieci anni del 40 per cento. Se i profitti cresceranno molto meno non sarà per qualche forma di stagnazione secolare ma per la pressione della concorrenza, per la distruzione creatrice della tecnologia (le società innovative portano a casa meno profitti di quelli che portano via alle società tradizionali) e per l’effetto di tassi d’interesse, tasse societarie e costo del lavoro, tre componenti di costo crollate nei 35 anni passati e che nei prossimi dieci probabilmente non risaliranno molto, ma che in ogni caso non scenderanno più. Fin qui McKinsey. Proviamo adesso a fare qualche considerazione nostra. La prima è ovvia. La storia dal 1980 a oggi è agli atti, quella dei prossimi dieci anni no. Per quanto rigorosa e seria sia la metodologia utilizzata nelle previsioni, esiste sempre un elemento di soggettività e di arbitrio. Inoltre, come ebbe a dire Donald Rumsfeld, non solo esistono le incognite conosciute (comunque misurabili statisticamente) ma anche quelle sconosciute, ovvero le sorprese. Nessuno, nel 1977, avrebbe potuto prevedere la portata della svolta cinese dell’anno successivo e l’impatto globale che questa avrebbe avuto e continuerà ad avere. Se guardiamo oggi un film di fantascienza del 1950, non importa che questo sia ambientato nel 1970, nel 2010 o nel 3000, perché quello che vediamo è comunque il mondo del 1950, con le sue speranze e le sue paure e con gli uomini e le donne del 3000 truccati come si usava nel 1950. La stessa cosa vale per gli studi seri che cercano di immaginare il futuro.
The Limits To Growth, il celebre rapporto pubblicato nel 1972 dal Club di Roma, prevedeva per il XXI secolo esplosione demografica, esaurimento delle risorse agricole e minerarie, carestie e collasso sociale. Letto oggi, con il rallentamento demografico, la sovrabbondanza di materie prime e l’epidemia globale di obesità, il libro del Club di Roma ci racconta non del nostro presente, ma delle cupe tristezze e paranoie degli anni Settanta, una fase storica di stagnazione, di crisi energetica e di instabilità sociale. La stessa cosa, forse, si potrà dire delle previsioni sul futuro formulate oggi, frutto del pessimismo e delle angosce striscianti di questi anni. Anni strani, i nostri, in cui le borse sono ai massimi non per entusiasmo sul futuro, ma per la sottile disperazione delle banche centrali, che cercano di rimediare alla semistagnazione, all’invecchiamento della popolazione e alla crisi fiscale con la monetizzazione del debito, i tassi reali negativi e la liquidità sovrabbondante. Detto questo, le previsioni di McKinsey sono il meglio che si possa scrivere disponendo delle conoscenze che abbiamo oggi e sono supportate da elementi sotto gli occhi di tutti.
I profitti sono sotto attacco crescente da più fronti. I governi non alzano le imposte sulle società perché temono la concorrenza fiscale degli altri paesi, ma fanno sempre più disinvoltamente di peggio, salassando le banche con continue e mastodontiche multe o, come vediamo in Germania in questi giorni, scaricando con scioltezza sulle società elettriche e sui loro azionisti i costi di uno smantellamento del nucleare deciso dai politici con motivazioni elettorali. Le grandi multinazionali dei paesi emergenti, dal canto loro, possono portare grandi danni agli utili delle nostre. Lo abbiamo visto nella siderurgia e lo stiamo vedendo nei trasporti aerei (se i cieli americani ed europei venissero aperti alla concorrenza, viaggeremmo tutti su compagnie del Golfo). I grandi accordi commerciali internazionali in discussione, come la Trans-Pacific Partnership, renderanno queste forme di concorrenza ancora più evidenti. La tecnologia, poi, ce la mette tutta per azzerare le inefficienze del mercato e comprimere gli extrautili che ne conseguono. Oggi c’è Skype là dove un tempo c’erano grasse società di telefonia a lunga distanza. Airbnb aumenta la concorrenza nel settore alberghiero, mentre i rivenditori di auto usate sanno che, prima di comprare, tutti confrontano i prezzi on line. La stessa cosa succede nell’abbigliamento e nella distribuzione in generale e succederà presto in altri settori.
Come si tradurrà, in borsa, questa crescita più lenta degli utili? A prima vista, considerando il livello attuale dei multipli, viene da pensare a borse piatte a perdita d’occhio. Sappiamo però che non sarà così perché non è mai stato così. L’esplosione degli utili dal 1980 a oggi è stata certamente accompagnata, nel lungo periodo, da un’esplosione degli indici di borsa, ma anche da un’enorme volatilità. L’SP 500 passò da 140 nel 1980 a 1527 nel 2000. Scese a 798 due anni dopo, tornò a 1565 nel 2007. Crollò a 666 nel 2009 per risalire a 2124 nel giugno di quest’anno. Se nel 2025 le borse saranno sui livelli di oggi sarà dunque per un caso, ma questo caso rientrerà nel novero delle cose possibili. Anche prendendo per buona l’ipotesi di una crescita annua dell’1.5 per cento degli utili e applicando a questi utili i multipli di oggi (dopo tutto i tassi non saliranno molto) le borse potrebbero comunque restare, nel lungo periodo, più interessanti dei bond. All’1.5 di crescita degli utili andranno infatti aggiunti il 2.3 di dividendo e il 2.0 d’inflazione, che oggi sembra lontano e che verrà però probabilmente raggiunto e superato. Si arriva così al 5.8 senza contare i buy-back, che nel tempo caleranno ma che non scompariranno del tutto. La sfida, in un mondo di questo tipo, non sarà quindi a livello di indici, ma consisterà nell’individuare in tempo i settori in declino strategico e quelli emergenti. La schumpeteriana distruzione creatrice lavorerà infatti a tempo pieno.
Il valore aggiunto (o tolto) dai singoli gestori azionari ne uscirà esaltato.