Costantinopoli 398 d.C. Il giovane neoplatonico Sinesio da Cirene, esponente della corrente nazionalista greca, tiene un discorso davanti all’imperatore Arcadio, un ventenne sulle cui spalle grava il peso di difendere la Romània dalle tribù germaniche che l’assediano. Non illudiamoci, dice Sinesio, di potere assimilare questi barbari. Li abbiamo fatti entrare dentro le nostre frontiere, li abbiamo presi nelle nostre case e tutti, ormai, me compreso, abbiamo almeno uno schiavo con i capelli biondi e gli occhi azzurri dal quale dipendiamo dalla mattina alla sera per tutti i nostri bisogni. Ad alcuni di loro abbiamo anche permesso di entrare nell’esercito e nella pubblica amministrazione. Non fidiamoci di loro, non sono mai fedeli alla parola data. Appena ne avranno la forza ci sgozzeranno come agnelli nelle nostre case. La paura di cui si fa interprete Sinesio è così diffusa che due anni dopo, in seguito a manifestazioni e disordini animati dai nazionalisti, tutti i biondi con gli occhi azzurri sono espulsi da Costantinopoli.
Italia 535-553 d.C. Trent’anni di guerra durissima tra Greci e Goti sconvolgono e distruggono quello che resta dell’Italia dopo le invasioni del secolo precedente. La corte di Bisanzio, che aveva allevato il nobile germanico Teodorico e lo considerava assimilato, manda lui e i suoi 125mila ingombranti Ostrogoti a riconquistare l’Italia, ma Teodorico e i suoi successori rompono presto con Costantinopoli e si tengono l’Italia per sé. L’imperatore Giustiniano manda allora i suoi migliori generali a punire i barbari. Nel corso di questa guerra infinita gli Ostrogoti assediano e radono al suolo la filobizantina Milano, uccidono 30mila uomini e prendono schiave altrettante donne. Alla fine i generali bizantini riescono a prevalere. Nel corso della pulizia etnica che ne segue gli Ostrogoti, la più sofisticata e forte tra le etnie germaniche europee, vengono cancellati completamente dalla faccia della terra. Ancora una volta, tuttavia, la vittoria dei Greci è di breve durata. Quindici anni più tardi, infatti, un altro popolo germanico, i Longobardi, caccerà definitivamente i Greci da quasi tutta l’Italia. Come si vede, il rapporto tra Grecia e Germania non ha iniziato a deteriorarsi con l’invasione della Wehrmacht del 1941.
Anche nell’Ottocento e nella Grande Guerra l’impero germanico era stato vicino agli Ottomani, odiati dai Greci come storici oppressori. Il nazionalismo greco, forgiato durante la Turcocrazia (1453-1821), è del resto stato sempre duro come l’acciaio. Al contrario dell’Albania e della Bosnia (che passò direttamente dal catarismo all’Islam), la Grecia rimase sempre raccolta fieramente intorno all’Ortodossia autocefala e nessun greco si convertì. Il comunismo greco, dal canto suo, arrivò al punto di sfidare Stalin, che a Yalta aveva ceduto la Grecia all’Occidente, e combattere in completa solitudine una guerra civile dal 1946 al 1949 contro i partiti appoggiati da Stati Uniti e Gran Bretagna. Syriza, che riassume in sé la tradizione nazionalista e quella comunista, viene dunque da lontano e sottovalutarne la radicalità è stato un errore. La fine vera o presunta delle ideologie ha portato molti a pensare che Tsipras, una volta vinte le elezioni, avrebbe fatto come tutti i politici e si sarebbe rimangiato quasi tutto. Syriza è però fortemente dottrinaria e ideologica e unisce a una notevole spregiudicatezza nella tattica una rigidità strategica speculare a quella tedesca. Fa parte della tattica il continuo annuncio da parte greca di una soluzione imminente nei negoziati in corso con i creditori. Tutto è pronto, ci viene detto da mesi. In questo modo, a livello quasi subliminale, la Grecia cerca di spiazzare gli interlocutori e di fare passare l’idea che i cattivi sono gli altri. Nelle ultime ore questo messaggio è stato di nuovo ripetuto e rilanciato e i mercati, ancora una volta, hanno ripreso a sperare. Noi naturalmente non sappiamo se le cose stiano davvero per sbloccarsi o no. Avanziamo però l’ipotesi per cui, se si risolveranno, saranno le borse e i crediti a trarne il beneficio maggiore, mentre l’euro, al di là delle ricoperture iniziali che potranno spingerlo brevemente di nuovo verso 1.15, rimarrà strutturalmente debole.
Infatti, anche nel caso di un compromesso accettabile, la crisi greca avrà comunque dimostrato varie cose, tutte negative per l’euro. La prima è che la moneta unica è un accordo tra governi, non tra stati. Per cambiare una virgola in una costituzione occorrono anni e maggioranze schiaccianti, per uscire dall’euro bastano un decreto nel cuore della notte e una rotativa che stampi nuove banconote. Anche gli Stati Uniti, si sa, hanno la loro Grecia. Puerto Rico è un territorio dell’Unione, un pre-stato esattamente come erano i territori del West nell’Ottocento. I portoricani hanno il passaporto americano, pagano alcune tasse a Washington e hanno in tasca dollari americani. L’isola è cronicamente depressa e male amministrata. Per aiutarla, il Congresso ha sempre concesso una tripla esenzione fiscale (federale, statale e locale) sui redditi e i capital gain derivanti dai bond emessi dal governo di Puerto Rico. Il risultato è che tutti i ricchi americani hanno nel loro portafoglio i municipal bond dell’isola. L’altro risultato è che l’isola si è indebitata fino al collo e ora è sull’orlo della bancarotta (che verrà probabilmente evitata anche questa volta). I suoi bond rendono ormai il 10 per cento esentasse, ma a nessuno è mai venuto in mente, né a Washington né a San Juan, di sganciare l’isola dal dollaro e creare un peso portoricano svalutato.
L’euro, d’altra parte, è una valuta in balia di 19 governi sempre più instabili. La frammentazione crescente del paesaggio politico europeo è considerata da politologi come George Friedman di Stratfor o Ian Bremmer di Eurasia come uno dei principali pericoli per la stabilità globale. I toni chavisti di Podemos, la Gran Bretagna che vuole uscire dall’Unione Europea, il nazionalismo rampante nell’est del continente, il lepenismo, la disaffezione nell’opinione pubblica verso un’Europa che fa l’impossibile per non farsi amare, tutto converge verso un euro debole come lubrificante che possa dare un po’ di colore a un’economia ossificata e permettere in questo modo di recuperare almeno una parte del consenso perduto. La Germania, molto preoccupata per l’ingovernabilità crescente dell’Unione, se ne rende conto benissimo e non è un caso che nessuno, al contrario che in passato, si lamenti dell’euro debole. Anche gli Stati Uniti lo accettano come male minore rispetto a un’Europa in pezzi. In caso di accordo tra Grecia e creditori saremo dunque compratori di borse europee e di bond della periferia, ma saremo venditori di euro in caso di recupero verso 1.15.