Ho lavorato con Alberto Mucci per quasi tutti gli anni settanta. Lui era da poco diventato direttore del giornale sorto dalla fusione tra Il Sole, centenario mercuriale della comunità degli affari milanese, ed il 24 Ore, nato nel dopoguerra per parlare di economia e di finanza con spirito più moderno e spregiudicato. Mucci era un buon giornalista che dopo essersi laureato a Roma aveva avuto una completa formazione sul campo a Milano ,dove aveva intessuto una rete di conoscenze non solo negli ambienti dell’ Assolombarda, che poi risulteranno fondamentali per imprimere una svolta all’informazione economica. Il Sole 24 Ore muoveva allora i suoi primi passi.
Era una giornale piccolo e molto tecnico, tanto che i colleghi degli altri giornali, non consideravano dei veri e propri giornalisti i suoi redattori. La titolazione era più asettica possibile, tipo l’ assemblea Montedison. Non si badava molto alla bella scrittura. Le notizie si davano solo se ti cascavano addosso. Ma dopo il ’68 il mondo tradizionale aveva imboccato la strada del declino. Anche la Confindustria con la riforma Pirelli aveva avviato un rinnovamento. Erano anni di crisi sociale ed economica, ma mentre i delitti delle BR occupavano la scena, nascevano grandi novità nel mondo dell’informazione. In campo economico, con L’affermarsi di un più ampio mercato, si sentiva il bisogno di una informazione competente ma affidabile e trasparente.
Ed è proprio questo che Mucci ha fatto. Ha posto solide fondamenta per la crescita di un moderno giornale dell’ economia italiana, liberandosi gradualmente dai vincoli di appartenenza rispetto al proprio editore e puntando a rappresentare tutti gli aspetti dell’economia italiana, dalle banche agli artigiani, passando per i professionisti, commercialisti ed avvocati, per i quali il foglio rosa divenne un indispensabile strumento di lavoro. Ricordo ancora quando ci portò a trovare l’ avvocato Agnelli da poco presidente della Confindustria, al quale chiedemmo, senza tanti giri di parole se l’ associazione degli industriali voleva aver un bollettino per propagandare le proprie idee, una specie di giornale di partito, com’erano Il Popolo o L’Unità, oppure se erano disposti a sostenere il nostro tentativo di dar vita ad un grande giornale dell’economia italiana, libero da stretti obblighi di osservanza della linea confindustriale.
Agnelli non esitò a scegliere questa seconda opzione. Non sapeva che farsene di un house organ, voleva che l’Italia facesse un salto in avanti anche nella qualità dell’informazione. Una linea mantenuta da Confindustria per quasi trent’anni e poi messa in discussione dal presidente D’Amato che invece voleva usare il giornale come uno “strumento” della politica di Confindustria. Un errore dovuto all’ignoranza e in parte responsabile della crisi da cui solo ora il giornale sta cominciando ad uscire. Alberto Mucci guidò con coraggio e mano ferma questa trasformazione. Prese giovani redattori, all’inizio ostacolati dalla pigrizia di quanti “avevano sempre fatto così”.
L’introduzione di una pagina di notizie sindacali creò, ad esempio, un putiferio negli ambienti industriali più conservatori. Ma ormai la trasformazione non si poteva arrestare. Si cominciarono a pubblicare anche le notizie scomode, si diede spazio a varie voci politiche, si criticarono comportamenti e decisioni, senza guardare in faccia a nessuno. Posso citare due episodi che mi videro protagonista. Il primo riguarda la critica che rivolsi a Giordano dell’Amore, mostro sacro dei banchieri italiani e padre padrone della Ca’ de Sass, sulla impossibilità di continuare a difendere i corsi delle cartelle fondiarie, pilastro del risparmio dei milanesi.
E poco dopo infatti, quel muro cadde e la banca dovette rivedere tutto il suo modo di operare. Il secondo riguarda Paolo Baffi, governatore della Banca d’Italia, verso il quali noi tutti nutrivamo un rispetto quasi reverenziale, che però criticammo perché in omaggio ad una prassi fino ad allora sempre seguita secondo la quale il bilancio delle banche non poteva mai uscire in perdita, stentava a diffondere la verità sulla situazione del Banco di Napoli. Noi sostenevamo che la trasparenza è un valore inderogabile e che la sanzione che sarebbe venuta dal mercato agli amministratori che avevano portato il bilancio in rosso, sarebbe stata una cura efficace per adottare i necessari provvedimenti correttivi.
Anche in questo caso Baffi si convinse della fondatezza delle nostre opinioni ed il Banco di Napoli uscì, nello sconcerto generale, con il bilancio in rosso. Il pubblico seguiva con interesse questa trasformazione tanto che sotto la direzione di Mucci il Sole 24 Ore passò da circa 40 mila copie e 100 mila nel 1978. Ho ancora la medaglia che commemora questo traguardo. Poi Alberto Mucci l’anno dopo fu attratto dalla sirena del Corriere della Sera, che allora era il più ambito punto di arrivo della carriera di qualsiasi giornalista. Non fu una esperienza felice.
Alberto si trovò in mezzo agli oscuri maneggi della P2, e senza alcuna colpa o coinvolgimento, fu piano piano un po’ emarginato tanto che meno di tre anni dopo si dimise per intraprendere una carriera nell’ufficio studi della BNL, continuando a scrivere soprattutto su riviste specializzate. Mucci era un giornalista di valore. Aveva saldi principi morali ed una grande umanità che ne facevano un naturale punto di riferimento per tutti i redattori e per tanta gente che lo ha conosciuto e gli ha voluto bene. Quella scritta da Alberto è una pagina indimenticabile non solo per quanti hanno lavorato al suo fianco, ma anche di grande importanza per l’avanzamento della società italiana.