Uno dei decreti del Jobs Act da attuare entro il prossimo giugno sarà quello relativo al salario minimo. La legge delega prevede infatti che dovrà essere introdotto, eventualmente anche in via sperimentale, il compenso orario minimo applicabile ai rapporti di lavoro subordinato e, fino al loro superamento, ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi nazionali di lavoro.
L’art. 36 della Costituzione sancisce che il lavoratore ha diritto a una “retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa“.
Nei fatti, la determinazione quantitativa della retribuzione è stata demandata alla contrattazione collettiva grazie anche alla nozione di retribuzione minima elaborata sin dai primi anni ’50 dalla giurisprudenza, che ha sempre fatto riferimento, nel rispetto del dettato dell’ art. 36 della Costituzione, ai livelli retributivi definiti nei contratti collettivi nazionali di lavoro applicati alla categoria o al settore produttivo di appartenenza.
Questo orientamento della magistratura ha consentito ai lavoratori dipendenti da imprese non aderenti alle associazioni imprenditoriali stipulanti il contratto nazionale di lavoro, e quindi non tenuti a rispettare i minimi retributivi della categoria, a richiedere l’ applicazione dei minimi contrattuali, con espresso richiamo proprio al precetto costituzionale come interpretato dai giudici di merito e della Consulta.
Peraltro la funzione di supplenza giudiziaria nella tutela delle retribuzioni non ha, se non limitatamente, offerto una protezione alle consistenti fasce di lavoratori che si sono sviluppate negli ultimi due decenni (lavoratori atipici, parasubordinati, autonomi), in particolare nei settori non sindacalizzati dei servizi e della comunication & information technology.
Un primo intervento legale sulla retribuzione minima si è avuto con la legge Fornero sulla riforma del lavoro, quando ha stabilito che per i lavoratori a progetto i parametri per fissare il loro compenso devono essere i minimi retributivi previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro di categoria per i lavoratori che svolgono “mansioni equiparabili”.
Il Jobs Act supera ora l’ interpretazione data dalla giurisprudenza, e dalla legge Fornero, sulla determinazione della retribuzione come fissata dalla contrattazione collettiva, ed introduce il compenso orario minimo, anche se non in maniera universale ma soltanto ai lavoratori appartenenti a quei settori che non sono regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Per salario legale si intende la retribuzione minima (oraria, giornaliera o mensile) che i datori di lavoro devono per legge corrispondere ai propri lavoratori. I minimi salariali, introdotti per la prima volta in Australia e Nuova Zelanda alla fine dell’ ottocento, sono oggi in vigore in molti paesi del mondo.
Il confronto internazionale mostra che c’ è un ampio spettro nei livelli del salario legale: sul salario mediano, la percentuale va dal 37,8% negli Stati Uniti al 47,2% in Gran Bretagna fino a raggiungere il 61,5% in Francia (dati OCSE 2012); il salario minimo di 8,5 euro introdotto quest’ anno in Germania rappresenta il 58% del salario mediano di un operaio tedesco.
Nella Unione Europea il salario legale è presente ormai in 19 Paesi e riguarda oltre l’80% dei lavoratori. Nel nostro Paese un eventuale salario minimo pari a 7,5 euro (il compenso che oggi riceve un lavoratore pagato con voucher) corrisponderebbe al 74,5% del salario mediano: per equiparare la quota della Gran Bretagna dovrebbe scendere a 4,7 euro o a 5,8 euro per essere in linea con i tedeschi.
Gli effetti del salario minimo possono peraltro interagire sull’ occupazione, specie quella poco qualificata, e sul sistema di relazioni industriali, in particolare sulla contrattazione collettiva.
Sul primo versante, il livello del salario minimo non deve essere troppo alto, per evitare il rischio di un impatto negativo sulla domanda di lavoro e sull’occupazione regolare, né troppo basso, almeno superiore ai sussidi economici pubblici, per riuscire a stimolare l’offerta di lavoro.
E’ la questione di cui da un paio d’anni si sta discutendo in America tra il Presidente Obama, che vuole portare il salario minimo federale da 7,25 a 10,1 dollari, per stimolare i consumi e favorire la crescita, e la maggioranza dei repubblicani al Congresso che resiste strenuamente perché teme, al contrario, una inversione del trend di discesa del tasso di disoccupazione tornato ai livelli pre-crisi del 2008. Nel frattempo 29 Stati americani hanno aumentato i loro minimi salariali oltre i 9 dollari l’ora, con una previsione, ad esempio nel Massachusetts, di raggiungere gli 11 dollari nel 2017.
Sul versante del sistema delle relazioni industriali, in Germania l’introduzione del salario legale è stato il frutto di un intenso dibattito politico e sindacale motivato, in primo luogo, dalla necessità di ridurre l’effettiva copertura della contrattazione collettiva a favore di quella aziendale, sul modello Volkswagen.
Anche da noi sarebbe necessario, per recuperare la competitività e la produttività perdute, un revirement delle ormai sclerotizzate relazioni industriali sempre più fondate su protocolli confederali simili alle “grida” di manzoniana memoria (quelli sulla produttività e sulla rappresentatività non sono che gli ultimi esempi).
E’ necessario passare a nuovi sistemi contrattuali più semplici ed efficaci, ed un contributo a questo obiettivo può essere dato dall’ introduzione per legge di un salario minimo universale a livello interprofessionale e intersettoriale e non limitato solo a determinate fasce di lavoratori e settori, come previsto oggi dal Jobs Act.
Il salario minimo accelererebbe il processo di modernizzazione delle relazioni industriali, rendendo formalmente possibile dare avvio ad una contrattazione collettiva decentrata in grado di essere più vicina alle esigenze delle imprese e dei lavoratori, azienda per azienda.
Ciò non significa cancellare le parti normative dei contratti collettivi nazionali di categoria (anche se sarebbe auspicabile una loro drastica riduzione a poche unità, contro gli oltre 400 censiti dal CNEL, con le aggregazioni ad esempio per settore: industria, agricoltura, agroalimentare, edilizia, trasporti, commercio, credito, comunicazione e pubblico impiego), ma le dinamiche delle retribuzioni, oltre i minimi legali, sarebbero ricondotte, con la contrattazione aziendale, al merito e alla motivazione collegati alla prestazione lavorativa, a vantaggio delle performance delle imprese e dei salari dei lavoratori.
Per cambiare verso al sistema di relazioni industriali nel nostro Paese, ed evitare che venga intaccato da forme latenti di opposizione social-sindacale-politica, occorre dunque intervenire con il Jobs Act o con un nuovo Codice del Lavoro semplificato anche sui livelli della contrattazione collettiva e, last but not least, sulla quantificazione del salario minimo.