La grave crisi di questi ultimi sette anni ha giustificato in molti casi, come quello dell’Ilva di Taranto, l’intervento pubblico. In altri casi abbiamo visto grandi e medi gruppi privati cedere il passo ad importanti investitori stranieri, senza avere la possibilità di contrastare questa deriva. In sostanza l’imprenditoria privata troppo spesso non si è dimostrata all’altezza della gestione di società grandi in un mondo globale. Le poche grandi imprese di dimensione internazionale che ci sono rimaste sono diventate apolidi, hanno trasferito la sede a Londra o ad Amsterdam, dove le condizioni fiscali, ma soprattutto amministrative e finanziarie sono più favorevoli rispetto a quelle vigenti nel contesto italiano.
Ma la risposta giusta a questi problemi industriali non è quella di un ritorno dello Stato nella gestione diretta delle imprese. Su questo punto tutti gli oratori che sono intervenuti al Convegno sulla “Storia dell’Iri” organizzato dalla Banca d’Italia e dall’Accademia dei Lincei, si sono mostrati concordi. Da Pierluigi Ciocca, curatore della poderosa opera sulla storia dell’Iri in sei volumi, al Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco agli ex presidenti dell’Iri Romano Prodi e Gros Pietro, a Giuliano Amato, tutti hanno riconosciuto che quell’esperienza è irripetibile, e nemmeno desiderabile, dato che oggi, come ha spiegato Visco, quello che occorre non è uno Stato produttore, bensì uno Stato regolatore capace cioè di rimuovere gli ostacoli al buon funzionamento dei mercati e di garantire un contesto favorevole all’attività di impresa.
L’Iri, che pure ha avuto un ruolo molto positivo nel dopoguerra quando ha creato l’industria di base e le infrastrutture indispensabili al decollo dell’economia italiana, con il passare degli anni era degenerato a causa delle pesanti influenze dei partiti che hanno imposto una logica diversa da quella dell’efficienza e della profittabilità, provocando così perdite catastrofiche che lo Stato non era più in grado di coprire con l’aumento dei fondi di dotazione. Si arrivò così alla privatizzazione totale dell’Istituto e di molte delle sue partecipazioni più importanti. Diversi pezzi di industria rimasero nell’ambito pubblico, ma si persero molte competenze industriali e finanziarie che negli anni l’Iri aveva formato, e soprattutto i Governi non furono in grado di avviare un nuovo modo di concepire la politica industriale, di assumere cioè quel ruolo di indirizzo strategico e di sostegno alla crescita delle imprese che altri paesi ad economia di mercato, a cominciare dagli Stati Uniti, non hanno mai abbandonato.
Il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi. Non c’è una industria pubblica a fare da traino (ruolo che però con l’avvento della globalizzazione non era più in grado di svolgere), ma non ci sono nemmeno grandi gruppi privati capaci di aprire la strada verso la crescita dell’intera economia. Su cosa fare, Visco è stato molto chiaro. Lo Stato deve incentivare la crescita dimensionale delle imprese, deve stimolare l’innovazione sia con la ricerca di base, sia con incentivi ad hoc, e soprattutto deve intervenire nella formazione del capitale umano puntando sull’innalzamento della quantità e della qualità delle persone dotate di istruzione superiore.
C’è poi la questione di una buona finanza per l’impresa. Molti hanno avanzato l’idea di ricreare degli istituti come l’Imi capaci di finanziare gli investimenti, altri pensano che ci vuole un mercato finanziario in grado di accogliere le emissioni obbligazionarie ed azionarie delle imprese. Sicuramente non si può continuare a guardare con sospetto alle banche. Al contrario occorre aiutarle ad alleggerirsi dei tanti crediti in sofferenza con una bad bank pubblica.
Al fondo dal dibattito sul ruolo dello Stato nella politica industriale emergono due visioni contrapposte: da un lato coloro che auspicano un ritorno puro e semplice dello Stato imprenditore, e dall’altro coloro che puntano sulla possibilità per l’Italia di giocare la sua partita sulla scena internazionale creando quell’ambiente favorevole all’impresa che possa attirare capitali, italiani o esteri, importa poco. L’Iri era nato in epoca di trionfo dei nazionalismi, spesso non democratici,e in sistemi economici relativamente chiusi (e che andavano verso l’autarchia), e riproporla oggi in sistemi aperti sarebbe un grave errore. In questo modo non solo non riusciremo a superare i vizi antichi del capitalismo italiano, ma finiremmo per perpetuarli e quindi per tagliarci fuori dal poderoso flusso della globalizzazione.